La separazione dei poteri è tabù
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«Alla fine la giustizia è uscita perdente». Parole pesanti, quelle dell’ex presidente del Tribunale penale Mauro Ermani. A un mese dalle sue dimissioni, Ermani racconta la sua versione dopo la tempesta che ha travolto la giustizia ticinese: «Da un problema di segretarie si è arrivati a sconquassare l’intero Tribunale».
Ermani, dice la sua. Ammette d’aver sbagliato a inviare a una segretaria il famoso SMS con l’immagine di un fallo, pur invocando l’attenuante dello scherzo fuori dall’orario di lavoro. Ma ribadisce con orgoglio due aspetti. Il primo: nessuno durante questa bufera lo ha contestato sul piano professionale. Il secondo: ha sempre tenuto la politica fuori dalla porta della magistratura. Anzi, sceglie parole precise: «Non ho mai piegato la testa davanti alla politica». Ermani rilancia un vecchio, delicato problema mai risolto: la separazione dei poteri. Tanti in questi mesi hanno pronunciato affermazioni che sono andate a invadere il campo della magistratura, invitando a prendere provvedimenti che invece devono essere presi dagli organismi di vigilanza dei giudici. Perché è legittimo e doveroso che la politica dia gli indirizzi e approvi leggi e regolamenti, ma da sempre c’è la tentazione di tenere al guinzaglio la magistratura. Ora, con la riforma contenuta nella Risoluzione del Gran Consiglio approvata in ottobre si è fatto un passo avanti. Basterà l’autonomia finanziaria, il codice etico, i nuovi poteri al Consiglio della magistratura? Davvero si vuole continuare a nominare i procuratori seguendo la lottizzazione - perché di questo si tratta - politica e mandando in secondo piano competenze ed esperienza, oltre criteri di selezione che sarebbe meglio affidare alla magistratura proprio per evitare ombre sulle nomine? Se non si è chiari sino in fondo, se non si traccia un segno netto sui confini dei poteri dello Stato, poi capita quello che è capitato in altri Paesi, come l’Italia, la Spagna o la Francia, dove periodicamente riemerge il conflitto tra politica e giudici in un gioco di sospetti che non fa bene a nessuno. Se si è arrivati a questa situazione è anche perché per anni non si è voluta affrontare una riforma complessiva della giustizia e anche ora dopo la votazione in Gran Consiglio e la risposta del Consiglio di Stato i tempi di approvazione di una normativa complessiva
E allora al di là della vicenda che ha travolto Ermani, al di là dei suoi errori (la miccia è stata accesa dall’interno del Tribunale), al di là dell’aspetto umano che merita rispetto, forse è il caso che la politica ascolti le parole di un uomo che ha servito le istituzioni per 36 anni, conosce a fondo le pieghe della giustizia ticinese. Se una lezione si può trarre da questa vicenda è che forse si è gridato troppo, confuso le carte, creato sconcerto nel cittadino, mettendo invece in secondo piano la priorità di una riforma che deve fare una netta scelta di campo.
Per il resto, per la vicenda umana e professionale di Ermani, è il caso di rileggere l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato del giurista italiano Piero Calamandrei, che ammirava il sistema federalista svizzero e osservava: «La missione del giudice è così alta nella nostra estimazione, la fiducia in lui ci è così necessaria, che le umane debolezze, che non si notano o si perdonano in ogni altro ordine di pubblici funzionari, sembrano inconcepibili in un magistrato. Non parliamo della corruzione o del favoritismo, che sono delitti; ma anche le più lievi sfumature di pigrizia, di negligenza, di insensibilità sembrano, quando si trovano in un giudice, gravi colpe».