La Superlega? Cinica e spregiudicata, ma forse ineluttabile
Cinica, figlia dell’avidità. Addirittura «orribile», «uno sputo», per dirla con il presidente dell’UEFA Aleksander Ceferin. Sì, queste sono le ore delle parole forti. Degli «io mi fidavo di te». E quindi, di riflesso, dei tradimenti e delle battaglie legali. Eppure l’avvento della Superlega era tutto fuorché peregrino. Ha stupito la sua irruzione, brutale certo. Ma, di nuovo, studiata nei minimi dettagli. A un amen dalla riunione fissata dai vertici dell’UEFA per annunciare la riforma della Champions League. Quella, cioè, che avrebbe dovuto essere la soluzione. La risposta alle preoccupazioni dei principali club del continente, travolti dalla pandemia e con essa da centinaia di milioni di debiti. La formula varata da Nyon, insieme a federazioni e leghe nazionali, evidentemente non è piaciuta. Il club esclusivo coordinato da Florentino Perez e Andrea Agnelli non ha così potuto fare altro che uscire allo scoperto. Con tanto di portale web chiavi in mano e tutti gli airbag possibili sul fronte giudiziario. Da organizzazione privata che ritiene di potersi muovere senza vincoli. Quanto basta per andare allo scontro totale.
E adesso? Adesso, dicevamo, è l’ora dell’indignazione. Giusta e comprensibile, dal momento che la Superlega calpesta principi sacri quali la meritocrazia sportiva, la solidarietà e la sussidiarietà. Oddio, tutti valori sui generis. Dal momento che la Champions League, di fatto l’alter ego del nuovo torneo, negli ultimi anni ha contribuito a scavare il fossato tra le società più ricche e quelle meno attrezzate. La porta, tuttavia, è sempre stata lasciata socchiusa per la sorpresa di turno. Così come le sfide di grido hanno emozionato anche alla luce della loro eccezionalità.
Peccato che alla Superlega non importi nulla dell’exploit dell’Atalanta o di un Real-Bayern possibile solo in finale. No, l’obiettivo è all’opposto: siamo al «tutto e subito», all’intrattenimento che vince sull’incertezza sportiva. Come dimostra il fatto che solo il 20% dei premi annuali (fino a 250 milioni di euro, mica noccioline) dovrebbe dipendere dai risultati delle 20 elette. Perché? Perché oltre a essere cinico, purtroppo siamo di fronte a uno scenario anche ineluttabile. Con i club che sempre più si stanno trasformando in produttori e promoter di contenuti mediatici, obbligati a intercettare le esigenze di un pubblico nuovo. E a battere la concorrenza di mille altri attrattori (sportivi e non) che vogliono fare affari o alla peggio sopravvivere in un mercato sempre più globalizzato. I tifosi di pallone, per fortuna, non sono però nati solo dal 2000 in poi. C’è ancora chi si esalta e dispera per la Super League, quella svizzera, o un Cagliari-Parma deciso in rimonta al 94’. Le parti in causa dovranno pensare anche a loro e al fantasma della disaffezione. Ecco perché dopo l’ora delle parole grosse, servirà quella della mediazione. Anche se dolorosa e dall’esito radicale.