La vetta ha toccato il fondo

«Quando uomini e montagne si incontrano, accadono grandi cose»: è una frase del poeta inglese William Blake, sulla quale, oggi, si potrebbe far planare qualche fondata critica.
D’altronde è stata pronunciata oltre duecento anni fa, in un’epoca in cui la montagna racchiudeva in sé valori e significati che ora sono sbiaditi, per non dire cancellati.
Le vette più alte del mondo, infatti, ai primi dell’Ottocento non erano minimamente avvicinabili se non nei sogni e nelle fantasie di quegli impavidi che più di ogni altra cosa desideravano ascendere lassù, in un misto di sforzi disumani e scenari mozzafiato, per scoprire meraviglie e sofferenze di un mondo inesplorato. Era naturale guardare alle montagne col cuore colmo di riverenza. Tempi lontani, persino mitologici. Ai giorni nostri tutte le vette sono praticamente conquistate, espugnate e – diciamolo francamente – profanate.
Quanto accaduto di recente sulla montagna più alta e maestosa del mondo – quell’Everest che si piegò alla forza dell’uomo per la prima volta nel 1953, anno in cui fu trafitto dalla bandiera conficcata dal neozelandese Edmund Hillary – ne è la conferma e racconta di una realtà che va oltre ogni immaginazione.
Nelle settimane scorse scatti fotografici, video, cronache sulla stampa e sui social hanno testimoniato di un vero e proprio ingorgo poco sotto gli 8.848 metri della meta finale: decine di persone in fila indiana, ciascuna in attesa di metter piede sulla cima per pochi secondi e magari scattare un selfie. Una scena degna di Rimini a Ferragosto.
Tra questi «turisti», come li ha definiti qualcuno, c’era di tutto: dai più esperti tra gli alpinisti al più malaccorto «scalatore di sgabelli da bar» in cerca di emozioni.
Invero, basta pagare: e anche la montagna più impegnativa è alla portata di molti, a patto che il massimale della carta di credito sia abbastanza ampio.
E così, se fino a pochissimi anni fa il pericolo sull’Everest era rappresentato «solo» dai rischi connessi alla natura selvaggia e ostile (freddo, vento e valanghe, mancanza di ossigeno), oggi gli arrampicatori devono fare i conti soprattutto con un altro pericolo potenzialmente mortale: gli imbottigliamenti sopra gli ottomila metri, quindi già ben oltre la cosiddetta «quota della morte» dove la permanenza, per un essere umano, si fa sempre più critica ad ogni ora che passa.
Una situazione assurda, finanche grottesca, con lunghe attese prima di dare l’ultimissimo assalto alla vetta, circondati, se non tallonati, da scalatori sotto pressione ed esasperati per varie ragioni. Un contesto dove i comportamenti avventati si sprecano.
Alla vigilia della stagione più amata dagli scalatori, sono già undici coloro che hanno perso la vita sull’Everest a causa di malori correlati a un allenamento insufficiente, all’inesperienza, a problemi di salute sottovalutati e all’azzardo di alcune guide.
Inevitabili le polemiche, neanche troppo di contorno, sullo sfruttamento economico della montagna. Una foto pubblicata da uno scalatore, diventata virale negli scorsi giorni, ritrae un centinaio di «climbers» in coda per raggiungere la vetta, come se si trattasse di sgomitare per salire sul vagone della metropolitana. Di tale sovraffollamento sono state accusate le autorità del Nepal che rilasciano i permessi a colpi di 11mila dollari l’uno: distribuire meglio le ascese non guasterebbe e certo eviterebbe qualche problema su un percorso che non è esattamente una passeggiata di salute. Secondo gli esperti, infatti, a quell’altezza in ogni nostro respiro c’è appena un terzo dell’ossigeno rispetto a quanto ne incameriamo al livello del mare e proprio per questo il corpo umano si deteriora molto più rapidamente: la finestra di tempo disponibile per arrivare in vetta prima che maturino problemi fisici è dunque minuscola.
Resta che, per l’Everest, questa è la quarta stagione più letale di sempre, e non è ancora conclusa. Oltre ai cadaveri disseminati sul cammino per la vetta, c’è dell’altro: l’alto numero di visitatori ha fatto crescere in modo esponenziale la quantità di rifiuti abbandonati ai campi base, tanto che già la scorsa primavera erano state raccolte diverse tonnellate di spazzatura. Non si parla solo di bombole d’ossigeno vuote, lattine arrugginite o tende rotte, ma anche dei più sgradevoli rifiuti organici degli scalatori.
Una fotografia davvero impietosa quella che ci arriva dalla catena dell’Himalaya, con la purezza della montagna più alta della Terra oltraggiata dalla maleducazione e dal narcisismo dell’uomo. Che persino l’Everest finisse svilito da una coda che ricorda le ore di punta nei centri commerciali o quella per entrare allo stadio, non l’avremmo mai immaginato. È come se anche il punto più alto del mondo avesse toccato il fondo.