L'America e le sue nostalgie sudiste

di GERARDO MORINA - Ad osservare fatti e polemiche che si sono sviluppati negli Stati Uniti nell'ultima settimana si ricava l'impressione (superficiale) che l'America sia attraversata da nostalgie sudiste. Ma è una trappola per le allodole. Nessuno si sogna di ribaltare la storia, la quale dice che la Guerra di secessione terminò 152 anni fa con la vittoria degli Stati Uniti d'America (nordisti) sui cosiddetti Stati confederati secessionisti (sudisti). La storia andò in quel modo ed esistono oggi in tutti gli Stati Uniti almeno 500 monumenti commemorativi di quel periodo. Il fatto nuovo è che sempre più amministrazioni locali stanno oggi pensando di rimuoverli. Ma non per negare la storia. Semplicemente perché i monumenti stanno diventando totem scomodi e pericolosi dal momento che, visti come simboli politici, offrono il fianco ad una strumentalizzazione, da cui nascono poi divisioni e violenze. L'ultima scintilla è scoccata sabato scorso nella tranquilla cittadina universitaria di Charlottesville, in Virginia, dove gruppi di nazionalisti, estremisti e fautori della destra identitaria bianca hanno dato vita ad una manifestazione finita in tragedia con la morte di una dimostrante anti-razzista, falciata dall'auto di un fanatico. Il corteo era stato organizzato per protestare contro la prevista rimozione di una statua del generale Robert E. Lee, l'eroe delle giubbe grigie sudiste durante la guerra del 1861-1865. Da Charlottesville la polemica è cresciuta fino a trasformarsi in un caso nazionale, con un'America ampiamente divisa. Perché, a onor del vero, non c'è solamente la strumentalizzazione in chiave razziale da parte dell'ultradestra bianca, ma un risvolto che assegna ai monumenti agli eroi confederati una connotazione ambigua. La maggior parte di tali monumenti fu infatti costruita in un'epoca lontanamente postuma rispetto alla Guerra di secessione, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, quando la popolazione di colore degli Stati Uniti fu privata quasi completamente dei diritti al Sud e, nel periodo compreso tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, quando il sistema di segregazione razziale si trovava sotto attacco da parte del movimento per i diritti civili. Ne consegue che le statue non sono mai state un semplice residuo del passato bensì un chiaro simbolo politico. Quindi per molti, soprattutto per i neri, le statue vengono considerate come un'arma usata a piacimento contro di loro e certamente non un modo per onorare la storia. Di segno opposto è invece la tenacia di chi, come la destra identitaria bianca soprattutto nelle sue ali estremiste, mira a fare quadrato intorno ai monumenti perché in tal modo spera di attirare nelle proprie file anche gli elementi bianchi più moderati. Sono coloro che rifiutano la violenza ma hanno sviluppato una mentalità da assedio, ritenendo che l'uomo bianco sia oggi non solo trascurato da Washington (come pensavano i sudisti dell'Ottocento) ma anche perseguitato da un mondo politico secondo loro tutto a favore delle minoranze e in perenne difesa della «correttezza politica». È su queste basi che si è impostata la reazione del presidente Donald Trump in merito sia al «dileggio storico e culturale» di cui si macchierebbe chi rimuove le statue, sia alla presunta equidistanza dimostrata sui fatti di Charlottesville, dei quali Trump ha detto di considerare la sinistra radicale (alt-left) responsabile quanto la destra alternativa (alt-right). Le argomentazioni del presidente sono tuttavia ben lontane dal convincere l'opposizione e parte del suo stesso partito. Sono vere le contrapposizioni di schieramenti di cui parla Trump, ma il presidente si presta ad essere indifendibile e sospetto di una non totale imparzialità se si considera che buona parte della tribù bianca, in special modo quella delusa dall'establishment, rientra nel suo bacino elettorale; che la troika dei suoi assistenti, Steve Bannon (ieri in procinto di essere rimosso dal suo incarico di capo della strategia), Sebastian Gorka (viceassistente) e Stephen Miller (senior advisor) non hanno mai nascosto simpatie per l'estrema destra; e infine che David Duke, capo del Ku Klux Klan, movimento segregazionista nonché negazionista dell'Olocausto, si è sentito in dovere di ringraziare pubblicamente il presidente per la posizione da lui recentemente assunta.