Fogli al vento

Lampi di novembre

Forse il significato profondo di quella ritualità oggi è andato quasi del tutto perso, anche se qua e là perdura in Halloween un’atmosfera che in qualche modo richiama il mistero del buio e delle sue paure
Michele Fazioli
Michele Fazioli
04.11.2024 06:00

Tre immagini, tutte buone, dal taccuino visivo del passaggio da ottobre a novembre. L’altra sera uno stormo di bambini vestiti da streghette e scheletrini ha suonato nel buio del crepuscolo anche alla nostra porta: si divertivano molto, teneramente allegri, dipinti, eccitati. Simpatici. Per loro Halloween è gioco e festa nel mistero allegramente pauroso della notte. Altra immagine, sabato, villaggio di montagna, piccolo cimitero. Un sacerdote vestito di viola con un drappello di fedeli benediceva le tombe e intonava le litanie a uno stuolo di santi cui si chiedeva di badare alle persone care che hanno lasciato questo mondo. Nei gesti e nella cantilena mormorata, nell’insieme di quelle piccole tombe orizzontali e di quelle persone in verticale sembrava che fra morti e vivi lo spessore della differenza fosse più sottile, quasi trasparente. Domenica, nel grande cimitero della mia città: quanta gente, quanto traffico nel cicaleccio discreto dei vivi intenti a perlustrare i viali dei morti. Ci si salutava fra vivi ma un poco il saluto andava anche ai “diversamente viventi” che ci hanno lasciato e che vivono nella nostra memoria (finché viviamo noi, un poco continuano a vivere anche loro). Per chi poi ha il dono della fede può persino capitare di stabilire con i morti un intreccio di domanda e intercessione. 

Quelle istantanee configuravano tutte insieme, senza fratture, questa inclinazione novembrina al pensiero dell’ineffabile confine fra la vita e la morte, fra il buio e la luce. Pure Halloween, ormai, ne fa parte, anche se il suo innesto dalle nostre parti appare come uno dei tanti consumi, indotti magari anche per riempire un vuoto di senso vero. Voglio però precisare che non è tanto Halloween in quanto rito sociale e ludico, semmai, a disturbare. Disturbano alcuni eccessi, alcuni fracassi chiassosi. Ma in sé Halloween, nella sua radice, è una tradizione che viene da lontano, da remoti miscugli celtico-pagani-anglosassoni che, nella stagione che precede il buio crescente del solstizio invernale, esorcizzavano la nostalgia e la paura dei morti. La commemorazione dei defunti e dei Santi della Chiesa, del resto, si colloca proprio in quel tempo stagionale di luce morente e buio avanzante. Le tradizioni evolvono, si impastano tra di loro dentro il corso dei secoli e dei millenni. E dunque Halloween in sé sarebbe coerente con un filone secolare e millenario: il timore e il rispetto dei morti tradotto in grottesco fantastico e notturno. 

Forse il significato profondo di quella ritualità oggi è andato quasi del tutto perso, anche se qua e là perdura in Halloween un’atmosfera che in qualche modo richiama il mistero del buio e delle sue paure. Leggete questo bell’assaggio d’atmosfera che ho scoperto nella raccolta di racconti intitolata proprio “Halloween” (Mondadori) dello scrittore americano Ray Bradbury: “Tutti sapevano che il vento, quella sera, era un vento insolito; anche l’oscurità era insolita perché era Halloween, la vigilia di Ognissanti. Tutto pareva tagliato in un morbido velluto nero, dorato, arancione. Il fumo si arricciolava fuori da mille camini come i pennacchi di un corteo funebre. Dalle cucine esalava il profumo delle zucche; quelle svuotate della polpa e quelle che cuocevano dentro il forno”. Stiano tranquilli allora quei genitori che vedono i propri bimbi o figli adolescenti “fare casino” la sera di Halloween, provino un po’ solo a sorvegliarli, indulgenti (e divertirsi con loro). Ma poi, e qui riprendo le altre immagini evocate, quei genitori potrebbero e dovrebbero ricordare ai loro figli in questi giorni di novembre (mese dedicato dalla tradizione ai Morti) le care persone scomparse (nonni, bisnonni, parenti, amici) e rinnovare se possibile la tradizione della visita al cimitero, o quantomeno un pensiero, momenti di memoria. Sono gesti personali, individuali, ma anche familiari e di comunità. Dentro la consapevolezza di un’appartenenza persuasa (a una radice condivisa) i morti infatti vivono con noi. Giorgio Orelli, nella sua bella poesia “Nel cerchio familiare” (“nel cerchio familiare/ da cui non ha senso scampare”) immagina i morti mescolarsi discretamente alla nostra quotidianità e toccare furtivamente pezzetti della realtà viva che loro hanno abbandonato. Ma ci vuole silenzio, un silenzio denso che non è mai vuoto ma pieno; non certo il fracasso: “Entro un silenzio così conosciuto/ i morti sono più vivi dei vivi:/ da linde camere odorose di canfora/ scendono per le botole in stufe/ rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,/ ritornano nella stalla a rivedere i capi/ di pura razza bruna”. Davvero un raccolto silenzio d’ascolto è il dono più bello che possiamo fare ai nostri morti. Ed essi ci ricambieranno, quieti e fedeli, a modo loro.