Il divano orientale

L'anomalia Israele

Israele è sostanzialmente, come Stato politico, un’anomalia – E difenderlo o criticarlo non cambia la sostanza: uno Stato moderno fondato, non solo su basi politiche, ma anche religiose resta di fatto un’eccezione assoluta
Marco Alloni
Marco Alloni
25.10.2024 06:00

A pagina 86 del libro La storia da dentro di Martin Amis si può leggere il seguente dialogo a proposito di Israele:

«Beh, io fondamentalmente sono dalla loro parte» disse Martin a Julia mentre facevano le valigie. «Perché? Perché sono circondati da Paesi che li vogliono morti». «Allora come mai sono andati a cacciarsi laggiù? Non era evidente? E poi non sono solo i Paesi circostanti, mi sembra. E che mi dici del Paese in cui si sono insediati, la Palestina. Perché lì?». «La religione. È stata la religione, Julia, che li ha condotti nella Terra Promessa». Lei fece una faccia nauseata: «Promessa da chi?»

È un dialogo emblematico, anche se molto riduttivo rispetto alla complessità del problema. In poche righe si esplicita infatti che Israele è sostanzialmente, come Stato politico, un’anomalia. E difenderlo o criticarlo non cambia la sostanza: uno Stato moderno fondato, non solo su basi politiche, ma anche religiose resta di fatto un’eccezione assoluta. La domanda di Julia riassume d’altronde le perplessità di milioni di arabi e occidentali: «Promessa da chi?» In effetti il cortocircuito che ha reso per ottant’anni insolubile il conflitto israelo-palestinese deriva in gran parte anche da questo aut aut, probabilmente senza soluzione: o si crede che possa esserci un Dio (una determinazione celeste) che sovrintende all’elezione di un popolo o non lo si crede e se ne rigettano quindi le pretese.

Resta il fatto che al principio della controversia non è soltanto il dato della supermazia militare, o di quella politica, bensì di quella della fede: il convincimento cioè che uno Stato novecentesco avrebbe liceità di esistere anche in virtù di una forza divina.

Theodor Herzl ventilò l’ipotesi di creare uno Stato d’Israele anche in nazioni che con la Terra Promessa non avevano nulla a che fare: tra le altre il Madagascar. Ma complesse circostanze storiche decisero infine per quella che gli arabi chiamano «colonizzazione» della Palestina. Così, nel 1948, il primo alveo dell’attuale Stato di Israele prese corpo.

Si poteva supporre già allora che era evidente quanto innaturale sarebbe stato quell’innesto sui destini del Medio Oriente? Certo. Come si poteva immaginare, secondo le parole di Garaudy, che presto i palestinesi sarebbero diventati (dopo l’Olocausto) «vittime delle vittime». Eppure l’anomalia ha deciso di imporsi sulla norma e forse anche sulla Storia. E l’ingiustizia terrena ha dovuto passare la mano da un popolo all’altro in nome, tra le altre cose, di una «promessa» che gli uni riconoscevano mentre gli altri no.

Dove dunque ravvisare i margini per una soluzione? Se il problema è tra chi «crede» e chi «non crede» – non in Dio, ma in un Dio di parte – è ovvio che di soluzioni non ne esisteranno per moltissimi decenni. A meno che una qualche opera di ricomposizione alla radice dei monoteismi, di ricomposizione intorno alla matrice semitica e abramitica, consenta un giorno di poter fondare una nuova cultura antropologica: per cui essere ebrei, cristiani o musulmani non possa più apparire discriminatorio. Ma a queste utopie la Storia non crede o non ha ancora imparato a credere.