Le quattro guerre della comunità LGBT

LGBTQ è un acronimo che sta per: persone lesbiche (L), gay (G) e bisessuali (B), cioè con orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale, e persone transgender (T), che cioè si identificano con un genere diverso da quello del sesso di nascita. La lettera Q sta invece per “queer”, un termine che vuol dire “eccentrico”, ma viene usato soprattutto da quanti non si riconoscono nelle definizioni tradizionali degli orientamenti sessuali e delle identità di genere. Per alcuni Q significa anche “questioning” (messa in discussione) e indica le persone che non sono sicure del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere. A volte si aggiunge una I alla sigla LGBTQ, dove la I sta per intersessuale, parola che indica una persona con caratteristiche fisiche diverse da quelle tradizionalmente associate a maschi e femmine. Il guaio è che la scienza riconosce una quarantina di diverse variazioni dell’intersessualità.


Insomma, la sigla LGBTQ(I) soffre dello stesso problema delle realtà che intende definire: un problema di identità. Per molti, infatti, queste sono identità che spiazzano, confondono, mettono in moto meccanismi di autodifesa a volte aggressiva. Di fatto, la battaglia per l’affermazione dei diritti di quanti un tempo venivano definiti “diversi” giunge al termine di un percorso che attraversa quattro livelli evolutivi, anzi quattro guerre.
Al piano basso ci sono i complottisti secondo i quali chi non è eterosessuale è pericoloso. Come leggiamo nel reportage di Filippo Rossi sul CorrierePiù, c’è ad esempio chi sostiene che l’omosessualità genera pedofilia. Argomento iniquo, visto che ci sono pedofili omosessuali e pedofili eterosessuali e a nessuno verrebbe in mente di dire che l’eterosessualità genera pedofilia. Ma viene affermato e ribadito non solo da qualche estremista omofobo, bensì da esponenti di ambienti teoricamente più misericordiosi, per esempio all’interno di molte Chiese.
Al secondo livello ci sono i colpevolisti. Secondo loro se non sei eterosessuale sei un peccatore. Considerano la diversità una colpa, non una condizione morale “neutra”. C’è tutta una cultura pruriginosa – spesso ipocrita - dietro questa posizione, che da un punto di vista psicologico è micidiale. Far sentire in colpa qualcuno per quello che è (e non per quello che fa - o non fa) è un chiaro abuso dell’etica.
Al terzo livello ecco i finti salutisti. Non parlano di colpa, ma pretendono che le scelte e le identità sessuali non tradizionali siano una malattia. La questione per loro è sanitaria e perciò andrebbe curata in apposite cliniche. Una posizione anti scientifica che sottintende un’idea nazistoide: chi fa parte del mondo LGBTQ(I) non commette errori: è un errore.
Al quarto livello dovremmo trovare i realisti. Non inventano favole nere, non giudicano, non relegano queste persone nell’ambito della patologia. Semplicemente riconoscono l’esistenza di un fenomeno che per secoli è stato negato o nascosto. Ma c’è. Significa riconoscere che LGBTQ(I) sono delle persone, non un’ideologia. Da qui bisogna partire per parlare serenamente e seriamente dei loro diritti. Il primo e inalienabile dei quali è quello di esistere e di essere rispettati. Per tutti gli altri è giusto che la parola passi alla logica democratica del confronto e eventualmente dello scontro (civile, s’intende) attraverso al quale si giunge a codificare leggi e a forgiare cultura e civiltà. Tuttavia, ciò non sarà possibile fino a quando non si supereranno gli stadi (le guerre) precedenti.


Oggi i complottisti parlano di una potente lobby gay attiva da Hollywood al Vaticano. In Polonia sono state create un paio d’anni fa zone (illegali) vietate alla comunità LGBT e circolano leggende secondo le quali esisterebbe un piano di Soros e della Germania per sostenerla e diminuire la popolazione mondiale. Colpevolisti e salutisti sono meno numerosi di un tempo, ma non del tutto scomparsi. In alcuni Paesi islamici l’omosessualità è considerata peccato e automaticamente anche reato, al punto da essere sanzionata con la condannata a morte. Mentre nelle chiese cristiane convivono le opposte tendenze alla condanna inappellabile o all’accettazione. Speriamo che alla fine prevalga la posizione illuminata di Papa Francesco che non è certo accusabile di relativismo morale: ma chi sono io per giudicare?