Editoriale

L’elemento umano e il robot diffidente

Ogni azione che oggi compiamo digitalmente rende sempre più ricchi gli oligarchi della rete e finisce per impoverire noi
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
17.08.2024 06:00

Forse Fredric Brown sarebbe un po’ deluso. Troppo asettica e meschina la nostra inconcludente relazione con la rivoluzione digitale per dare soddisfazione a uno che aveva presagito tanto ma lo aveva fatto con il talento dello scrittore visionario. Ci riferiamo naturalmente al misconosciuto narratore di fantascienza che nel 1954 (!) confezionò una profezia che giorno dopo giorno sembra sempre più verosimile, nel raggelante racconto La risposta (Answer). Angosciante finale incluso, con lo scienziato programmatore che al momento di collegare tutti i computer del mondo in un’unica unità cibernetica straordinariamente potente e onnisciente in grado di rispondere a qualsiasi domanda, ha l’onore di porre il primo quesito: «Esiste Dio?» chiede il malcapitato, «Adesso sì» risponde la macchina, un istante prima di incenerirlo bloccando per sempre il quadro dei comandi.

No, qui la sensazione della falsa partenza o peggio ancora dell’occasione sprecata, si riassume soltanto nella paradossale e surreale situazione in cui per accedere a un bene o a un servizio una macchina (lasciatecela almeno immaginare come un «robot» vecchia maniera) pignola e diffidente ci chiede di certificare (a noi?) di non essere come lei, di essere cioè «davvero» umani e per verificarlo ci impone, ad esempio, di identificare «tutte le immagini contenenti semafori» o «automobili» tra quelle proposte. Un esempio banale (niente cibernetiche divinità inceneritrici, almeno per ora) ma quotidiano, che dimostra come la strada della nostra sudditanza digitale è ormai quella di un’Internet sempre più umanoide e sempre meno umana. Come spiega il lucidissimo pamphlet di Valerio Bassan Riavviare il sistema (edito da Chiarelettere con il sottotitolo illuminante «Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla») quando dobbiamo dichiarare e dimostrare a un robot di essere degli «esseri umani» stiamo in realtà allenando inconsapevolmente dei modelli algoritmici sempre più complessi e commercializzabili. Questi dati servono poi a migliorare algoritmi di intelligenza artificiale, i quali vengono utilizzati per erogare servizi sempre più remunerativi. Insomma, come i più pessimisti avevano prefigurato, la progressiva automatizzazione di Internet ci trasforma in corpi di dati al servizio degli ingranaggi di monetizzazione: disumanizzati, non abbiamo più modo di evadere da questo processo.

Ed è qui che Bassan, che non è un retrivo luddista tecnologico che sogna il ritorno alle candele ma un giovane giornalista esperto di digitalizzazione, sostenitore convinto di un utilizzo della tecnologia che sia misurato e consapevole in quanto «dobbiamo riappropriarci della tecnologia, usandola a nostro favore, non come strumento di alienazione», centra il punto alla perfezione: la promessa originaria di Internet, l’abbiamo capito da un pezzo, è stata tradita e l’universo digitale è diventato presto un luogo inabitabile di cui diffidare e da cui mettere in guardia i più giovani. Immaginata come uno spazio infinito di libertà creativa e partecipazione democratica, questa tecnologia rivoluzionaria si è trasformata in una grande arena in cui vince solo chi applica le logiche commerciali più spietate. Ogni azione che oggi compiamo digitalmente – come informarci, comunicare, fare amicizia o acquistare qualcosa – rende sempre più ricchi gli oligarchi della rete (quelli che mandano i figli nelle scuole rigorosamente “offline” a studiare geografia e poesia) e finisce per impoverire noi, i suoi inconsapevoli e mercificati utilizzatori. Qualcuno ricorderà l’atroce dilemma alla base de Il terminale uomo (1972) tra i capolavori di un autore troppo presto scomparso e troppo presto dimenticato come Michael Crichton: è legittimo subordinare gli esseri umani alla volontà arbitraria di macchine inventate dagli stessi esseri umani? No, meglio riavviare il sistema. Magari funziona ancora.