Lolita a Teheran

In un libro grazioso e in parte rivelatore, Leggere Lolita a Teheran, si scopre nelle prime pagine: «Per il ministero dell’Istruzione superiore «Svizzera», chissà perché, era diventato sinonimo della rilassatezza di costumi occidentale. Qualsiasi critica a programmi o gesti ritenuti contrari ai dettami dell’Islam era sempre accompagnata da un sarcastico promemoria: l’Iran non è mica la Svizzera».
Sono parole che fanno sorridere, ricordandoci che la vocazione al pregiudizio è identica in qualunque Paese del mondo. Ma soprattutto fanno sorridere gli svizzeri, che se proprio devono vantare qualche primato non è certo quello della dissolutezza: semmai delle banche, degli orologi e del cioccolato.
Ma così vuole la coazione al luogo comune e al giudizio privo di conoscenza. E così vuole chi in Iran pretende Lolita un romanzo pornografico o chi a Kabul immagina le strade di Parigi disseminate di donne in cerca di sesso.
Eppure noi che vantiamo un livello di empatia e consapevolezza critica maggiori di quelli iraniani non dovremmo cadere in facili trionfalismi. Perché sull’Iran stiamo da decenni ripetendo le cose più sconsiderate. E non solo perché, allineati al Verbo atlantico, ci siamo adeguati al termine «Stato canaglia», ma perché continuiamo a pensare che la storia di quel Paese cominci e finisca con la Rivoluzione del 1979, senza serbare della grande Persia di Ciro il Grande, per esempio, alcuna memoria.
Ma non solo: nessuna memoria ci viene incontro nemmeno quando pensiamo alla Persia dello shah Pahlavi. Quasi che il rivolgimento teocratico del 1979 non affondasse nei suoi orrori e nelle sue persecuzioni, tra l’altro tutelate e difese dall’Occidente.
Per fortuna, però, con qualche buona lettura, questi radicati pregiudizi possono essere superati. Per esempio scoprendo che l’Iran contemporaneo vanta una delle più raffinate produzioni cinematografiche del pianeta e una letteratura - non necessariamente anti-islamica o filo-Rushdie - di tutto rispetto. E ricordando che un grande cronista come Kapuœciñski ci ha regalato con il suo Shah-in-Shah il ritratto più efficace dell’éra Pahlavi: consentendoci tra l’altro di comprendere le ragioni più recondite per le quali Khomeini trovò terreno fertile alla sua ascesa al potere.
Non decidiamo dunque frettolosamente che la Svizzera sia terra di dissolutezza, ma nemmeno, per converso, che l’Iran sia solo la terra del fanatismo islamico o del sostegno a Hezbollah. Entrambi i giudizi sono ampiamente parziali e l’unico modo per superarli è imparare a sorridere non solo delle banalità che vengono dette sul nostro conto, ma anche di quelle che diciamo noi sul conto altrui.
Certo, in Occidente siamo pervasi di pornografia e in Iran il regime ha una disgustosa propensione a fare strame delle libertà. Ma da qui a decidere che né da una parte né dall’altra esista il Bene è davvero un’eresia. Più o meno come dimenticare che Nabokov è un genio e che a volte si inceppano anche gli orologi svizzeri.