La traviata

L’opera più bella di Verdi al LAC

Il commento del direttore Fabio Pontiggia sul ritorno della lirica a Lugano
Il maestro Markus Poschner, direttore dell’OSI.
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
03.12.2019 06:00

La più bella delle opere di Giuseppe Verdi al LAC. Con Markus Poschner sul podio dell’Orchestra della Svizzera italiana, Olga Peretyatko, Airam Hernández e Giovanni Meoni nei panni di Violetta, Alfredo e Germont padre, nell’originalissimo allestimento dello Sferisterio di Macerata, datato 1992 ma intatto nella sua dirompente modernità rispettosa della tradizione. Modernità e tradizione: quanto di più verdiano si possa immaginare. È uno dei più bei regali che la rinnovata vita musicale luganese ci farà nel giugno dell’anno prossimo. La prima e tre repliche. L’attesa è grande per gli amanti del melodramma e per i cultori dell’inarrivabile maestro di Busseto. Oltre che agli artisti, all’OSI e a LuganoMusica, dobbiamo dire grazie al LAC: senza questo meraviglioso luogo aperto sul golfo, potremmo scordarci di vivere così tante, così intense e così elevate emozioni musicali.

«La traviata», su libretto di Francesco Maria Piave tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio «La signora delle camelie», è il capolavoro dell’intimità verdiana. Oggi si stenta a credere che la prima al Gran Teatro La Fenice di Venezia, il 6 marzo del 1853, possa essere stata un mezzo fiasco. Subito recuperato, è vero, il 6 maggio dell’anno successivo, dal trionfo nell’altro grande tempio operistico della città lagunare di allora, il Teatro San Benedetto. Ma quel primo scivolone è storia.

Come mai? La spiegazione ancor oggi più convincente è quella che ne diede Massimo Mila, l’indimenticato musicologo compagno di studi di Pavese, Ginzburg, Bobbio in quella incredibile fucina di precoci talenti intellettuali che fu il Liceo Massimo D’Azeglio di Torino. Ne «I costumi della Traviata» (1979) Mila scrive che «gli italiani erano avvezzi al dinamismo eroico delle precedenti opere verdiane, a un’ispirazione virile, prevalentemente centrata su tenori, baritoni e bassi. Un ritratto di donna da lui nessuno se l’aspettava». Fu uno choc. Con la terza opera della trilogia popolare Verdi metteva in scena, come lui stesso disse, la «vita comune», segnando l’inizio della fine del melodramma storico. La cortigiana Violetta Valéry è la protagonista di un’opera ambientata nella contemporaneità, su un tema scabroso anche per la borghesia italiana di metà Ottocento: l’amore tra una prostituta, seppur di elevato censo, e il rampollo di una ricca famiglia che tiene al prestigio, al buon nome e alle regole dell’alta società; una donna dapprima traviata e poi redenta perché pienamente investita da «quell’amor ch’è palpito dell’universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor»; una donna a cui il padre di lui - sbagliando e dovendo poi riconoscere l’iniquo errore - ha chiesto l’immenso sacrificio della rinuncia per salvare le forme; una donna che muore in scena non da eroina politica, ma da persona comune, come una di noi, nella camera da letto, stroncata dal male incurabile - la tisi - di quel secolo. «Se si può morire di veleno o di spada, perché non si può morire di tisi o di peste!! Tutto ciò non succede forse nella vita comune?» scrisse Verdi all’amico napoletano Cesarino De Sanctis.

Gli ardori risorgimentali restano fuori. «La traviata» è un «poema d’amore» che canta tutt’altra battaglia, cioè «schiettezza di sentimenti contro ipocrisia di convenienze sociali» (Mila). Opera anche autobiografica, creata negli anni in cui Verdi dovette lottare contro i pettegolezzi e le maldicenze bussetane sulla sua relazione d’amore con il soprano Giuseppina Strepponi: «Io reclamo la mia libertà d’azione, perché tutti gli uomini ne hanno diritto» scrisse il 21 gennaio 1852 da Parigi al suocero Antonio Barezzi: «Io non ho nulla da nascondere. In casa mia vive una Signora libera indipendente (...). Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni». Rivoluzionaria «Traviata»: un inno alla libertà dei sentimenti. Poschner, che si baserà sull’edizione critica della partitura, promette un’esecuzione fuori dagli schemi. Verdi non chiederebbe di meglio.