L’oscuro trionfo dei moderni apedeuti

È inutile citare i versi con cui Christopher Marlowe alla fine del Cinquecento nelle peggiori taverne della campagna londinese ammoniva, scandalizzandoli, i suoi troppi avversari ( «...E nulla ritengo peccato, se non l’ignoranza») prima di trascinarli in qualche furiosa rissa. E forse non serve neppure ricordare il terrore che ne avevano, centocinquant’anni dopo gli illuministi francesi: gli apedeuti, coloro cioè, come li definivano i seguaci di Voltaire e Diderot, che non capaci o non inclini a seguire un corso severo di studi, congiurano a screditare il sapere facendosi così un merito e un vanto della propria ignoranza, stanno davvero vincendo. Certo sarebbe più facile far finta di niente o fingere di credere che no, non può accadere proprio adesso, con il benessere, i mezzi tecnologici, la possibilità di accedere all’istruzione migliore e più estesa di cui mai l’umanità abbia potuto beneficiare. Ma «si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà», come disse una volta Aldo Moro con infinita saggezza. Anzi l’impressione è che i moderni apedeuti si stiano già evolvendo verso qualcosa di ancor più malinconico e pericoloso. Sdoganata e acquisita con sconcertante rapidità l’ignoranza come merito e valore, diciamo così di «sbarazzina simpatia», da sbandierare laddove sarebbe più normale vergognarsene, ormai siamo arrivati al passo successivo: negare la realtà, la conoscenza, il sapere scientifico (e in queste tristi contingenze pandemiche ne abbiamo purtroppo esempi quotidiani) è diventato un sinonimo di indipendenza, un onore dell’uno vale uno e della libertà di pensiero. E così, mentre la ragione e il buonsenso avrebbero tutte le risorse per diventare il denominatore comune di un nuovo umanesimo, ci vediamo costretti a combattere desolanti idiozie fatte di notizie inventate, ciarlatani guru, teorie del complotto e stucchevoli e dilaganti retoriche della postverità. Anche se il «combinato disposto» di dittatura social e idiozia del politicamente corretto qualche volta può far sorridere (un intelligente comico italiano in un’intervista faceva notare che oggi se si augura buona giornata a qualcuno entro poche ore l’associazione a tutela delle cattive giornate sarà pronta a farci causa per discriminazione e a distruggerci l’esistenza su tutte le reti sociali) è facile capire come, per chi tenta ancora di usare il cervello, più spesso sia lo sconforto a prevalere.
Così mentre chi dovrebbe aiutarci a ragionare si scanna per stabilire il genere più opportuno di un pronome o il modo più «inclusivo» di salutare un gruppo di persone di sesso differente magari riempendosi la bocca di «resilienze» e «comfort zone» senza nemmeno averne capito bene il significato, ecco che la Storia viene strumentalmente trasformata in un abisso senza fine di sessismo, razzismo e xenofobia e qualcuno comincia a ipotizzare di mettere all’indice quell’obsoleto e imbarazzante di Shakespeare o a proporre, come in Texas pochi giorni fa, leggi che obbligheranno a parlare di Olocausto solo «assicurandosi di avere testi che propongono anche tesi opposte» (sic).
Dobbiamo dunque rassegnarci al trionfo degli apedeuti? E chi potrà fermare l’epidemia dell’ignoranza e i suoi effetti devastanti sulla società e sulla democrazia? In un ficcante e coraggioso pamphlet Sabino Cassese, studioso sempre lucido e propositivo, auspica, invocandone quasi una resurrezione, che siano gli intellettuali (oddio, che parolaccia) a riappropriarsi del proprio ruolo, tornando a insegnare razionalità e dialogo, «nonché a far sperare in un possibile futuro migliore, che non vuol dire minor severità rispetto a quello che va storto, e proprio per questo a vedere un futuro non nero». E questa sì che sarebbe una rivoluzione coi fiocchi.