L’editoriale

«Mori» non «mori»: alzi la mano chi ha capito

Qual è il motivo per cui tra poco più di un mese si vedranno sfilare per le vie di Mendrisio dei «mori» senza volto dipinto?
Lidia Travaini
17.02.2024 06:00

Voi avete capito il motivo per cui tra poco più di un mese si vedranno sfilare per le vie di Mendrisio dei «mori» senza volto dipinto? Non parliamo delle giustificazioni sentite e lette a oltranza nel corso degli ultimi 10 giorni che generalizzano la vicenda paragonandola ad altre presunte discriminazioni o episodi di razzismo. Parliamo del caso concreto di Mendrisio e degli otto personaggi che ogni anno da decenni (o forse secoli) fanno parte della corte di Erode Antipa e dei quali il travestimento comprende il volto pittato. Ma che da quest’anno non saranno più truccati.

Perché noi non lo abbiamo ancora capito. O meglio, non lo abbiamo compreso fino in fondo. Se dobbiamo riconoscere un merito alla Fondazione Processioni Storiche di Mendrisio è certamente quello di aver mantenuto e difeso la decisione che ha preso, malgrado le critiche e le richieste di fare un passo indietro espresse fin da subito. Se invece dobbiamo identificare una pecca, la gestione della comunicazione è l’aspetto più perfettibile della faccenda. Sia dal punto di vista della forma sia da quello del contenuto. La scelta è infatti stata più subita che promossa: è emersa mezzo stampa, non su iniziativa della Fondazione ed è stata chiarita e motivata (ma senza fugare tutte le perplessità, ci torneremo tra poco) in un comunicato stampa diffuso a distanza di quattro giorni. Un comunicato dove si ribadisce che «le tradizioni evolvono», così come si sottolineano la «volontà di inclusione e di rispetto», le «diverse sensibilità di persone che provengono da culture e realtà sociali molto eterogenee», la possibilità di sfilare «per tutti coloro che vogliono partecipare» e il desiderio di non dipingere il volto per «far sembrare (i figuranti, ndr) appartenenti a un’altra etnia».

Tutte motivazioni condivisibili, ma che non spiegano esaustivamente la scelta. Il colore della pelle dei «mori» mette in scena un’etnia, una classe sociale, una minoranza, una caratteristica identitaria o culturale più di altri elementi dei costumi dei figuranti? Altra domanda: quale legame c’è tra il trucco facciale e il desiderio di includere tutti facendo sfilare chiunque lo desideri? A completare il pasticcio comunicativo c’è poi il secondo comunicato stampa diffuso dalla Fondazione, poche ore dopo il primo: c’è ancora qualche posto disponibile per chi vuole partecipare alle Processioni. Ma non per i «mori»: si cercano lacchè, porta manto, giocatori di dadi e portatori di scale. Poche ore dopo (dalla sera alla mattina) aver sottolineato di essere disposti a far sfilare nel ruolo di «mori» anche persone di «etnie diverse» la Fondazione fa sapere quindi che, però, i «mori» sono già stati scelti. La sera prima non si sapeva? Considerato anche che il termine per iscriversi era scaduto da giorni.

Il tema è delicato e immaginiamo che dare una spiegazione in grado di convincere tutti subito fosse impossibile. Ma a mancare nella strategia comunicativa della Fondazione è stata un po’ di empatia. Immedesimarsi nella popolazione di cui in fondo i membri della Fondazione fanno parte, mostrando di comprendere la reazione popolare per aver preso una decisione che snaturerà almeno un po’ una tradizione avrebbe aiutato. Così come avrebbe aiutato ammettere che la decisione è un po’ woke e dunque legata alla volontà di anticipare possibili critiche per aver fatto sfilare persone con il volto dipinto di nero. Perché quello del blackface è un tema che in Ticino ha già fatto discutere. E la messa in scena di una categoria (etnica o sociale che sia) per mezzo del trucco facciale durante la processione del Giovedì Santo è un fatto. Crediamo però che la Fondazione abbia avuto paura di finire in un polverone legato al blackface, decidendo di anticiparlo. In questo modo ha però sollevato un altro polverone, un’onda più local, di cui, va riconosciuto, non sembra proprio avere paura. Oltre l’onda c’è un bambino che, tra qualche anno, guarda la Processione del Giovedì Santo. Potrebbe essere nostro figlio o nostro nipote: vogliamo che nei diversi costumi e trucchi dei figuranti noti tratti identitari e caratteristiche che li rendono unici, o vogliamo annullare le differenze affinché non ne veda? Noi facciamo parte di chi desidera che non dia peso alle diversità. Per noi far vivere una tradizione non vuol dire necessariamente cambiarla, può semplicemente significare ricordare chi siamo e da dove veniamo, almeno una volta l’anno.