Oltre la pena, una missione
Bisogno d’aria. Come quando si riemerge dopo un tuffo. La realtà del carcere è un pugno nello stomaco. Forte. Lascia senza fiato. Una volta fuori, dopo appena qualche ora trascorsa alla Farera, si tenta di respirare a fondo. Come se prima, dentro, si fosse rimasti in apnea. Forse è solo l’ombra di quell’oppressione descritta dalle donne che abbiamo incontrato, e di cui vi raccontiamo nel CorrierePiù. Un’oppressione da cui loro, che devono scontare una pena, non possono mai liberarsi. Le sbarre, onnipresenti, le riportano sempre lì. Dentro. E la mancanza di un’occupazione - a differenza degli uomini - impedisce loro di gettare le basi per un’esistenza diversa, quando usciranno. Sono state giudicate colpevoli e stanno espiando la pena. Private della libertà, certo, ma forse anche della possibilità di intraprendere un vero percorso di recupero. Le attività introdotte nel corso degli anni dalla struttura permettono alle detenute di passare qualche ora in più fuori dalla cella. Meglio di niente. Possono stare insieme, imparare a cucinare, seguire alcune lezioni. Ma il lavoro, o un vero apprendistato, quelli no. Restano possibilità precluse. A loro, ma non agli uomini. Che stanno di là, alla Stampa. Colpa della situazione logistica.
La Farera non è stata creata per essere un carcere di esecuzione della pena. Dovrebbe essere un luogo di passaggio. Ma non lo è per le donne, che hanno solo due possibilità: o vanno fuori cantone, in strutture specializzate, congelando i rapporti in Ticino; o restano qui, in attesa che i mesi passino. Tentano di scacciare i momenti bui, contando sull’aiuto del personale. Cercano un riscatto, per sé stesse e per chi le aspetta fuori. Lottano contro lo scoramento e la noia. Cercano di non farsi sovrastare dalla malinconia. Giorno dopo giorno. Per mesi. Gli atelier e i gruppi di parola le tengono occupate qualche ora al giorno. Tentativi apprezzabili e senz’altro utili, ma insufficienti.
In questa situazione, che ormai si protrae da quattordici anni, da quando cioè il comparto femminile alla Stampa è stato chiuso, avere una sezione femminile è diventata un’urgenza. Sono tutti d’accordo: la direttrice della Divisione della giustizia Frida Andreotti, il direttore delle strutture carcerarie Stefano Laffranchini, le assistenti sociali. Lo ha ribadito a più riprese anche la Commissione del Gran Consiglio che si occupa della sorveglianza sulle condizioni di detenzione. La conclusione è sempre la stessa: serve un comparto dedicato a loro, alle donne detenute. Che garantisca le medesime condizioni detentive degli uomini, o che riesca a colmare almeno in parte la distanza attuale.
La soluzione che si sta delineando, e che dovrebbe garantire a partire dal gennaio del 2023 l’apertura di undici celle alla Stampa, è una buona notizia. Il Ticino tornerà ad avere una sezione femminile, nella quale si potrà imparare un mestiere e beneficiare di una vera formazione. Non più per occupare il tempo, ma per avviare un percorso di reinserimento sociale.
Un carcere che non punisca soltanto. Ma che riabiliti, ottemperando alla propria missione. E che possa alleggerire, almeno un po’. In attesa di tornare a respirare. Fuori da lì.