Onori e noia

Nel nostro Paese basta avere la cittadinanza svizzera e il diritto di voto per candidarsi all’elezione nel Governo federale. Un qualsiasi Gigi di Viganello può candidarsi. Poi, si sa, la possibilità di farcela è nulla, ma resta un bel principio democratico. Ho dunque suggerito ad Asia di candidarsi alla successione di Viola Amherd per dare un segnale forte e chiaro (cioè per fare fumo), ma mi ha risposto che ha di meglio da fare. Dal battellino fermo al porto comunale per maltempo, con grande disappunto di chi a Caprino aspettava il Barbera fatto col mulo, abbiamo comunque assistito all’elezione in Consiglio federale del centrista Martin Pfister subito lanciatosi a definire la collegialità come «un onore, non un onere». È un teorico del Mulino bianco che sta sullo stomaco al presidente dell’UDC ticinese Piero Marchesi? Lasciamolo lavorare, Pfister, e poi si giudicherà. Non c’è dubbio che la collegialità, tanto più nel nostro sistema, sia un valore, ma se esasperata porta nel deserto. In Ticino oggi cosa produce la collegialità? Alla mia giovane amica microinfluencer del lago e content creator ho ricordato una ricorrenza. Tra un paio di settimane, il 2 aprile, saranno trent’anni esatti da un’elezione cantonale storica con l’entrata in Consiglio di Stato della Lega con Marco Borradori e della prima donna con Marina Masoni, volto del riscatto dell’anima liberale del PLR osteggiata dal presidente Fulvio Pelli che puntava su un altro candidato e che non riuscì a evitare una devastante faida interna che vide anche l’altro eletto liberale, Giuseppe Buffi, che stava per far nascere l’Università della Svizzera italiana, andare in rotta di collisione con il vertice del partito. Aggiungiamoci il gran rifiuto del popolare-democratico Alex Pedrazzini, andato di traverso a molti nel PPD, di prendere il potente Dipartimento del territorio, poi assegnato a Borradori con il mefitico intreccio tra affarismo e politica per la realizzazione dell’impianto di smaltimento dei rifiuti che ha avvelenato la storia cantonale per un decennio.
Nel fortino della sanità e della socialità c’era invece Pietro Martinelli, l’ultima figura carismatica del socialismo ticinese ai vertici istituzionali. Cinque personalità del genere non potevano certo fare il Governo del Mulino bianco, di bianco c’era solo il Libro promosso da Marina Masoni sul Ticino del futuro bollato come manifesto liberista. Capitava che volassero gli stracci, eppure, tra luci e ombre, provocazioni ed errori, si producevano idee, anche non necessariamente da condividere, c’era un confronto, faticoso ma salutare, sulla società, sull’economia, sul funzionamento e sul ruolo dello Stato. Oggi, nel 2025, se va bene avremo davanti mesi di un teatrino sfiancante sui cerotti cantonali per i premi di cassa malati e alla fine, probabilmente, non si capirà nemmeno più di cosa si sta parlando. Altra epoca, altri equilibri politici, altra classe dirigente. Secondo Asia ho le tipiche nostalgie di chi invecchia. Sarà, ma senza rimpiangere il passato non mi spiacerebbe vedere qualche sussulto. Per il congresso di domani del PLR il presidente, lo Spez stellato, promette «una nuova squadra per un partito più coraggioso» mentre prepara una tartare al coltello per l’intervistatore del CdT, dimostrando perfetta connessione con lo Zeitgeist dove tutti sono chef o perlomeno accademici dell’enogastronomia e chi non lo è si dà al food porn, come la mia amica. Però, che noia!