Piano Draghi e sogni nel cassetto

«L’Europa è destinata a una lenta agonia», se non rilancia la propria produttività e la propria capacità di innovazione per competere con Stati Uniti e Cina. Questa è «la sentenza» di Mario Draghi, espressa lunedì scorso a Bruxelles, dove ha presentato il rapporto commissionato dall’UE sulla competitività europea. L’ex numero uno della Banca centrale europea ha chiesto una nuova politica industriale per il Vecchio Continente sostenuta da 800 miliardi di euro annui per finanziare rapidamente tutte quelle riforme indispensabili per non perdere ulteriore terreno nei confronti di Stati Uniti e Cina. Ciò implica provvedimenti a tutto campo che vadano dalla riforma del sistema universitario e della ricerca, all’adattamento delle regole sulla concorrenza per favorire il consolidamento delle attività in alcuni settori, all’integrazione dei mercati dei capitali, alla centralizzazione degli organi di controllo, ecc.
In pratica una vera e propria rivoluzione industriale giustificata, secondo Draghi, dalla «sfida esistenziale che deve affrontare l’Europa». Senza vincere questa sfida il Vecchio Continente non sarà in grado di finanziare il proprio stato sociale, di mantenere i propri livelli di vita e la propria indipendenza.
L’analisi di Mario Draghi, seppur estremamente cruda, è completamente condivisibile. Basti pensare che l’Europa è riuscita a perdere il 30% della propria forza economica nei confronti degli Stati Uniti. Il rischio che questo pacchetto di proposte finisca in un cassetto a Bruxelles riguarda il finanziamento di questa svolta, ossia gli 800 miliardi di euro annui che Draghi ritiene indispensabili per affrontare questa sfida. Sebbene non sia stato preciso, è chiaro che pensa a un debito comune dell’Unione garantito dai singoli Stati membri. La reazione della Germania, dell’Olanda e degli altri Stati «Frugali» è stata immediata: non è nemmeno ipotizzabile non rispettare i vincoli di bilancio. Questa levata di scudi è anche giustificata dall’esperienza negativa maturata dal piano di resilienza e di ripresa dell’Unione: finora sono stati usati solo 230 miliardi di euro, ossia un terzo di quelli stanziati, e spesso questi investimenti appaiono discutibili e soprattutto non consoni con gli obiettivi iniziali. Questo andazzo non è solo europeo. Negli Stati Uniti il grande piano di Joe Biden di sussidi agli investimenti nelle nuove tecnologie non riesce a decollare e finora sono stati investiti solo un terzo dei fondi a disposizione, sebbene l’ambito degli investimenti preconizzati non fosse così vasto come quello ipotizzato da Mario Draghi. Quindi il primo ostacolo è il solito: chi paga?
Ma ve ne sono altri che vengono dimenticati. Per una rivoluzione di questo genere, occorre una mentalità completamente nuova della burocrazia e anche della popolazione. Infatti, è necessario che le persone attive vogliano contribuire a sostenere e ad accelerare questo processo e non ad opporre resistenza. Ed è proprio la mancanza di fiducia nel futuro che pervade l’Europa, come dimostrano le ultime consultazioni elettorali europee, il grande ostacolo alla grandiosità di questi piani. Infine, e non poteva essere altrimenti, Mario Draghi si è concentrato sul lato dell’offerta dell’economia (quindi condizioni quadro, legislative, eccetera). In Europa, però, si sta manifestando anche una carenza di domanda: i consumi languono e così pure gli investimenti. Le imprese delocalizzano. Interi comparti industriali, come quello automobilistico, sono in difficoltà. Ciò non favorisce il reperimento delle risorse indispensabili per questa rivoluzione industriale che dovrebbe imperniarsi soprattutto negli investimenti per la difesa, per l’ambiente e per l’innovazione. Dunque, il rischio che il piano di Draghi resti nel cassetto dei «bei sogni europei» è alto.