L'editoriale

Quando i dazi sui beni sono il preludio a un freno alla circolazione dei capitali

Crescono gli indizi che vedono negli Stati Uniti il fronte protezionista più ampio di quanto si creda - Tasse sugli investimenti esteri piacciono a destra e a sinistra
Generoso Chiaradonna
18.03.2025 06:00

Dopo i dazi sulle merci, che limitano il commercio internazionale e penalizzano i paesi esportatori come la Svizzera, arriveranno anche quelli sui capitali? A prima vista appare una domanda retorica o addirittura contraria all’opinione della maggior parte degli esperti, eppure non è un’ipotesi peregrina. Le ultime settimane sono state da ottovolante per i mercati finanziari, primi anticipatori di tendenze economiche che potrebbero diventare recessive anche per la Svizzera. Ne è cosciente il BAK Economics che in uno studio presentato ieri ha sollevato i rischi insiti in una politica commerciale protezionista. Secondo gli economisti dell’istituto di previsioni basilese, l’imposizione di dazi del 25% da parte degli Stati Uniti ai prodotti Made in Switzerland e a quelli dell’Unione europea potrebbe far precipitare la Confederazione nella recessione l’anno prossimo. Con questo scenario, il prodotto interno lordo (PIL) reale crescerebbe dello 0,9% nell’anno in corso, per nulla nel 2026 e risalerebbe solo nel 2027 dell’1%.

Ma torniamo agli Stati Uniti, dove da più di due mesi imperversa la “tempesta” Trump. Molti investitori si sentono confusi dalle dichiarazioni e dagli atti di governo del presidente che non sta facendo nient’altro che quello promesso in campagna elettorale riassumibile nel suo famoso slogan «America first». Prima l’America. Programma che prevede il ritorno a un nazionalismo non solo politico, ma anche economico. L’incertezza seminata dall’azione spesso volutamente maldestra del presidente statunitense hanno spinto gli indicatori che la misurano a livelli che non si vedevano dai tempi della pandemia del 2020 e della crisi finanziaria globale del 2008. Per la precisione a dicembre 2024 l’Economic Policy Policy Uncertainty Index, calcolato da ricercatori delle università americane di Standford, Chicago e Northwestern, era a quota 460,18 punti; ad aprile 2020 i punti erano 436,66 e a settembre 2008, all’indomani del crollo della Lehman Brother’s, 204,41punti. È inutile aggiungere che più alto è questo numero, peggio è il livello di incertezza generato dalle politiche economiche dei governi. Infatti, sul sito www.policyuncertainty.com, viene misurato per più paesi.

Ma l’incertezza, come ripercorreva un ottimo articolo del quotidiano britannico Financial Times la scorsa settimana da cui sono state prese gran parte di queste informazioni, potrebbe peggiorare. In mezzo a tutti gli shock tariffari, una domanda serpeggia tra gli investitori: i dazi sulle merci potrebbero essere un preludio ai dazi sul denaro, ovvero una limitazione alla circolazione dei capitali finanziari da una parte all’altra del mondo? L’idea dominante tra gli economisti occidentali è che i flussi di capitale verso gli Stati Uniti generati dai surplus commerciali degli esportatori hanno contribuito a finanziare il suo enorme debito pubblico di 36.000 miliardi e anche le stesse imprese tecnologiche americane. Tesla, per esempio, è una di queste avendo ricevuto anche capitali cinesi e non solo. Altri economisti non ortodossi, come Michael Pettis, un professore americano di finanza alla Peking University di Pechino, vedono questi flussi di capitali non solo come un corollario benefico del deficit commerciale americano, ma come una sorta di maledizione. Il percorso inverso dei dollari, dalle economie in surplus commerciale a quella deficitaria statunitense, genera una domanda elevata di valuta americana. Secondo Pettis, l’aumento del valore del dollaro favorisce un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia statunitense e ne svuota la base industriale. Per questa ragione Pettis propone l’introduzione di «tasse» per limitare i flussi di capitali esteri. E non si tratta solo di proposte accademiche. Già sei anni fa, nel 2019, una senatrice democratica (Tammy Baldwin) e il suo omologo repubblicano Josh Hawley, presentarono un disegno di legge bipartisan proprio per tassare i capitali stranieri in arrivo negli Stati Uniti. Una proposta che sembrava non avere alcun seguito, almeno fino al mese scorso quando l’American Compass, un think-tank conservatore vicino al vicepresidente JD Vance non l’ha rilanciata. E infine ci si è messa anche la Casa Bianca con l’ordine esecutivo firmato da Donald Trump intitolato «America First Investment Policy» (il 21 febbraio). Con questo atto l’amministrazione USA si impegna a «rivedere, sospendere o terminare» un accordo tra Cina e Stati Uniti del 1984 che, fra le altre cose, rimuoveva una precedente tassa del 30% sugli afflussi di capitali cinesi. Insomma, il nervosismo degli investitori a stare sull’ottovolante appare giustificato.