Quando il genitore è di troppo

Marcello Pelizzari
09.04.2014 06:00

di MARCELLO PELIZZARI - «Il mio sogno è allenare una squadra di orfani». Negli anni, questa frase è stata attribuita a svariate persone. Due su tutte: Felice Pulici, ex portiere della Lazio scudettata nel 1974 e già allenatore di ragazzini; Ezio Vendrame, trequartista geniale e sopraffino, sorta di George Best all'italiana, al quale fu affidata una squadra di giovanissimi a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone.
Il riferimento è chiaro: nel cosiddetto calcio di formazione il genitore a bordo campo spesso è considerato una «razza pericolosa», un animale pronto a mordere tutto e tutti in difesa del proprio figlio. L'effetto è deleterio, con ragazzi costretti ad assistere a scene imbarazzanti per non dire fuori luogo. E gli insulti, ahinoi, si sprecano. Il campionario è ricco. Dagli improperi rivolti a chi siede in panchina e – apriti cielo! – opta per una sostituzione giudicata non gradita, fino alle minacce verso gli arbitri. È successo anche da noi, nel piccolo Ticino, lo scorso fine settimana: sette episodi nel campionato D9, riservato a ragazzi nati nel 2001 e nel 2002. Le vittime, mini-arbitri tra i tredici e quattordici anni (!). Non erano casi isolati, anzi: il malcostume si trascina da tempo. L'ultimo sabato nero ha però convinto la Federazione ticinese di calcio a prendere un provvedimento storico, annullare il turno in programma il prossimo 12 aprile, un «grounding» senza precedenti che – nelle intenzioni – deve fungere come momento di riflessione. Il problema va oltre la sfera sportiva. È culturale, latino se vogliamo. Lo sport ha solo fatto da catalizzatore, mescolando le speranze che padri e madri ripongono nei loro figli e facendone uscire un cocktail esplosivo, dalla gradazione fortissima.
Le premesse dei genitori nascono dalla mancanza di obiettività e da storture varie: i figli sono campioni, a prescindere; le partite di un campionato regionale valgono la finale di una Champions League o di un Mondiale. E guai a dir loro che il ragazzo non è il nuovo Van Basten o che quell'episodio in area non era rigore. Alcuni di quei mini-arbitri sono stati affrontati a muso duro a fine partita, insultati e perfino minacciati con un pugno; sappiamo anche di allenatori malmenati dal papà di turno come sappiamo di allenatori altrettanto polemici nei confronti dell'arbitro. Il fatto che non stiamo parlando di categorie più «adulte» ma di normali ragazzini è inquietante.
L'altro problema, strettamente collegato al primo, è che i bambini si sentono a loro volta legittimati a prendersela con il direttore di gara o con il mister che rimprovera loro un errore o una giocata sbagliata (fra i vari episodi accaduti sabato, segnaliamo un eloquente «Arbitro, arbitro, vaffa...» intonato da una squadra intera nei corridoi di Cornaredo). Un circolo vizioso pericolosissimo, il clima ideale per fare sbocciare piccoli terroristi del pallone.
Il calcio ha perso il suo status di sport per gentiluomini da tempo, oramai. Lontanissimi sono gli anni in cui perfino una banale finta all'avversario era considerata una vigliaccata. Ohibò, il rispetto è dunque diventato una chimera? Non sempre, ma sì. E non è certo colpa (solo) dei Balotelli o dei tanti «bad boys» che animano il calcio professionistico e il suo circo di polemiche, benché sia scontato e comodo creare il collegamento.
A monte, la decisione della Federazione ha un gusto amarissimo. È esagerata e ingiusta nella misura in cui ne punisce cento invece di uno, toccando anche chi non c'entra nulla e avrebbe tanto voluto indossare le scarpette nuove di zecca proprio questo sabato o condividere con gli amici la gioia per un gol. Una decisione, questa, che assomiglia ad una merenda rubata: sogni solamente accarezzati, campi vuoti e silenzio assordante.
Si rifletta, allora. Come suggeriscono dagli uffici di Giubiasco. Ai genitori diamo solo un consiglio: se i figli sono davvero «piezz'e core», insegnate loro che il calcio è bello a tutte le età e qualsiasi sia la categoria. Magari, cominciate convincendo voi stessi che gli arbitri possono sbagliare.

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