Quella foto, il cuore e la ragione

di FABIO PONTIGGIA
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
07.09.2015 06:00

La fotografia di Aylan divide l'opinione pubblica. Il confronto giornalistico sull'opportunità o meno di pubblicare l'immagine del bimbetto senza vita sulla spiaggia turca ha ceduto il passo ad infuocate discussioni sulle reti sociali. Il «Corriere del Ticino» l'ha pubblicata due volte, accompagnata dalle pertinenti analisi di Paride Pelli e di Carlo Silini. La nostra scelta è stata quella di non voltare la testa dall'altra parte, ma di guardare in faccia alla realtà, per quanto cruda. La fotografia ci è parsa e ci pare di una dignità assoluta: Aylan è nella posa che spesso i bambini della sua età assumono quando dormono; non c'è violenza in quell'immagine, non c'è un corpo straziato, il volto è seminascosto nella battigia. La fotografia non urla: è serenamente muta. Ma proprio per questo ha un impatto emotivo dirompente.

Questo ha fatto gridare allo scandalo alcuni esponenti politici di spicco e ha scatenato sui social network una virulenta polemica, con accuse di «manipolazione» e «sciacallaggio» rivolte a chi ha scelto di pubblicare la fotografia come simbolo della tragedia siriana. Un servizio del «Wall Street Journal» ha poi tolto qualsiasi ritegno a chi ha puntato l'indice accusatore. Cosa ha scritto il quotidiano di New York? Ha riferito che il padre del piccolo Aylan e del fratellino maggiore Galip era espatriato in Turchia tre anni fa quale profugo di guerra, che lì lavorava quale muratore per 17 dollari al giorno e che dalla Turchia aveva deciso di raggiungere invano il Canada, dove vive una sorella, e poi la Grecia, per risalire probabilmente in Germania. Altre dichiarazioni del padre di Aylan, all'emittente siriana Radio Rozana vicina all'opposizione, forniscono informazioni divergenti. Ma quanto riferito dal «Wall Street Journal» è bastato ai fautori della teoria dello sciacallaggio per dire sostanzialmente questo: il padre di Aylan non è un profugo di guerra, è un semplice migrante in cerca solo di una migliore condizione economica, ha compiuto una grande imprudenza portando in mare i figli e la moglie (tutti deceduti nel naufragio), poteva rientrare tranquillamente in Siria, come ha fatto per i funerali dei suoi cari. Pertanto – aggiungono indignati – la fotografia del figlio morto sulla battigia di Bodrum, proposta come immagine simbolo della tragedia siriana, è pura manipolazione politica, un volgare grimaldello utilizzato per suscitare, puntando solo sull'emotività, sensi di colpa nelle nostre coscienze e spalancare così le porte del Vecchio Continente a tutti i migranti, non importa se economici o profughi di guerra.

Sconcertante. Cinico. Ma soprattutto fuorviante. Perché? Il padre di Aylan è fuggito da un Paese in guerra. Una guerra in cui alcuni Stati occidentali hanno pesanti responsabilità, come per tutti i disastri causati dalla cosiddette primavere arabe. Molto verosimilmente, se la Siria non fosse precipitata in questa spaventosa guerra civile, Abdullah Kurdi avrebbe continuato a fare il barbiere nel suo Paese. Non è fuggito per cercare il paradiso economico in Europa: è fuggito dalla guerra. Non ha abbandonato la famiglia – come invece molti giovani migranti egoisticamente fanno – ma l'ha portata con sé. Non si è rassegnato a dipendere da sussidi e aiuti altrui, né tantomeno ha fatto il parassita arrogante come molti migranti purtroppo fanno. Ha invece lavorato duro, in un altro Paese, la Turchia – non propriamente un esempio di democrazia e di tolleranza –, cambiando mestiere e accettando una paga irrisoria. Ha messo via i soldi per il viaggio della speranza verso l'Europa. Ha provato, non ci è riuscito. Ha perso tutta la famiglia. Ora, questo suo impegno dovrebbe indurci a non riconoscerlo più come profugo di guerra? Dovrebbe diventare non un merito, bensì una colpa? E soprattutto: dovrebbe impedire all'immagine del suo piccolo Aylan di essere il simbolo della tragedia siriana che tocca sì il cuore, ma ci pone anche alcune domande di fondo?

Se così fosse, dovremmo veramente rivedere parecchie cose sulla scala dei nostri valori e principi. Ma così non è. Almeno per noi. Proprio quanto rivelato dal «Wall Street Journal» fa di quell'uomo ancor più un eroe positivo e del piccolo Aylan il simbolo di un dramma che chiede soluzioni pensate con la testa.