«Questo puoi leggerlo, questo no»: Roald Dahl e i pericoli della cancel culture
Qualche giorno fa il Telegraph ha rivelato che i libri per bambini scritti da Roald Dahl — autore britannico famoso per opere come La fabbrica di cioccolato, Matilde o Il GGG — hanno subìto nella più recente ristampa un restyling all’insegna del politicamente corretto. Per decreto della casa editrice Puffin, i personaggi dipinti dallo scrittore dovranno smettere di essere, ad esempio, grassi: ora Augustus Gloop sarà solo «enorme». Addio anche alla «grande faccia da cavallo» della celebre signorina Trinciabue (adesso solo «faccia»). E addio agli «uomini-nube» (di James e la pesca gigante): ora saranno «persone-nube». Non finisce qui. Le Streghe dell’omonimo romanzo, per mischiarsi all’ignara popolazione, lavoreranno da «scienziate» o gestiranno un’azienda, invece di essere «cassiere di un supermercato». Mentre mai più troverà spazio la parola «nero» (black): a essa sarà preferito il meno equivocabile «scuro» (dark). E poco importa che l’aggettivo fosse utilizzato, semplicemente, per descrivere spazi bui o (come nel caso di Furbo, il signor Volpe) il colore di un trattore.
Che alcuni passaggi degli iconici racconti e romanzi potessero risultare oggettivamente problematici, lo sapeva pure Roald Dahl. E in alcuni casi, i più evidenti e indifendibili, accettò di apportare modifiche ai propri testi: l’esempio più celebre è probabilmente quello degli Umpa Lumpa. Nella prima edizione di La fabbrica di cioccolato (1964), i famosi aiutanti di Willy Wonka erano descritti come pigmei africani, schiavizzati e ripagati per il loro lavoro con pochi semi di cacao all’anno. Messo alle strette in uno scambio epistolare con un’altra autrice di libri per bambini, l’americana Eleanor Cameron — la quale si opponeva ai contenuti razzisti dell’opera —, Dahl si convinse a reimmaginare gli Umpa-Lumpa, che nell’edizione del 1974 furono dunque descritti come un popolo dai capelli ramati e la pelle chiara.
Eppure, attento in modo maniacale alle parole utilizzate nei propri scritti, in moltissime altre occasioni Dahl si oppose con forza anche alle più piccole revisioni suggerite dagli editori; suggerimenti che, secondo l’autore, erano dettati più da precise politiche che dal bisogno di rispettare la sensibilità dei lettori, dei bambini. Tanto che, ha rivelato il biografo Matthew Dennison, uno degli slogan di Dahl era «Non me ne frega niente di quello che pensano gli adulti».
Oggi, dicevamo, la volontà di Dahl non conta più. Con il semplice benestare degli eredi (nato nel 1916, Dahl è morto nel 1990), la casa editrice Puffin ha potuto lavorare direttamente sul testo, modificando e tagliando a proprio piacere. Decine, anzi, centinaia, gli interventi effettuati con l’obiettivo dichiarato di «garantire che i differenti mondi e meravigliosi personaggi» di Roald Dahl, pure in un «libro scritto tanti anni fa», possano «continuare a essere apprezzati da tutti anche oggi».
Ed è qui, su questo accenno temporale, che i nodi vengono al pettine. I libri nati dalla penna di Roald Dahl, lo scrive la stessa Puffin, provengono dal passato. Sono storia. Recente, è vero, ma pur sempre storia. E come tale vanno trattati. La filologia, «l’onorevole arte che ci insegna a leggere bene», per usare le parole di Friedrich Nietzsche, serve proprio a questo. A risalire ai testi originali, scartando ogni revisione postuma, estranea al volere dell’autore, per accedere nel modo più autentico possibile all’opera, così da poterla interpretare, nella sua interezza, tenendo a mente il contesto storico nel quale è stata scritta. È questo l’unico approccio rispettoso alla cultura.
Ora, però, assistiamo a una tendenza preoccupante. Come in passato con i Bücherverbrennungen (i roghi, compiuti dai nazisti, di libri ritenuti "scomodi") o con l’oscurantismo di origine religiosa (si pensi, ad esempio, all'Indice dei libri proibiti), oggi si pretende sempre più di poter selezionare arbitrariamente la cultura umana. Il fenomeno è famoso come cancel culture, ma potremmo definirlo “anti-filologia”. E tutto si rovescia: l’arte, invece di essere salvaguardata e inquadrata nella sensibilità (giusta o sbagliata, per i canoni contemporanei) di chi ne è artefice, viene piegata e riplasmata per soddisfare le esigenze attuali. Un approccio, questo, che toglie al fruitore contemporaneo la possibilità di confronto con un mondo diverso, e la crescita che sempre ne consegue.
Per questo è importante tenere a bada una furia revisionistica che, altrimenti, rischia di uniformare la variegata produzione della mente umana (sia essa condivisibile o meno) in tanti piccoli mostri di Frankenstein. Coperti di tagli freschi e vecchie cicatrici, con arti e organi cuciti alla bell’e meglio, sostituibili nuovamente all’occorrenza.