Sapevate che barlafüs era una parola sessista?

Meno male che a nessuno è ancora venuto in mente di applicare la cosiddetta «cultura della cancellazione» al vocabolario. Ci sarebbe il rischio di vedere dimezzato il nostro patrimonio linguistico per rispettare il dogma del politicamente corretto. È un po’ come la storia dei moretti, (in tedesco «Mohrenköpfe», teste di moro) che diversi grandi magazzini svizzeri avevano ritirato per un certo periodo perché considerati feticci razzisti sotto forma di cioccolato e panna. Beh, lo stesso potrebbe capitare con le parole. Un esempio? Per secoli le donne sono state relegate nella penombra delle mura domestiche a «prillare il fuso», un’espressione di cui le nuove generazioni ignorano il senso (ma a breve lo spiegheremo). Ed ecco che ciò di cui si sono in parte liberate dopo estenuanti battaglie per l’emancipazione, si ripresenta sotto le innocue spoglie di una parola in dialetto: «barlafüs». Non stupitevi di non capire. Anche noi abbiamo dovuto leggere l’ultimo saggio del linguista e accademico della Crusca ticinese Ottavio Lurati (che intervistiamo nel CorrierePiù), per renderci conto che abbiamo del tutto scordato il significato originario di quel termine.
Chi frequenta il dialetto, infatti, sa che «barlafüs» indica una persona incapace e incompetente, un buono a nulla, o anche un arnese da lavoro assai modesto, un utensile di poco conto. Ebbene, ascoltando Lurati, scopriamo che «barlafüs» si riferisce all’attività di «prillare», cioè far girare rapidamente intorno a se stesso, «il fuso», ovvero lo strumento che permette di filare a mano, di trasformare un ammasso di fibre in un filato. Attività che in passato occupava soprattutto le donne. «Barlafüs – deduce lo studioso - esprime quindi il disprezzo dei soldati e dei cavalieri verso la donna che non portava le armi e sapeva solo lavorare la lana. Per secoli ha avuto questa accezione, che poi si è trasferita anche sull’uomo, inteso come maschio». Tra l’altro, ancora oggi, dire di uno che «fa lana» significa dargli del fannullone. Giusto per capire il vergognoso livello di considerazione della nostra antica (ma non così lontana nel tempo) società nei confronti del lavoro delle donne. Anche l’espressione «la me bacàna», mia moglie, sottende analoghi sentori, perché «bacàna» viene dal latino «baculum», bastone, il sostegno su cui si metteva la lana. E si torna al punto di partenza.
Studiare l’origine delle parole ci insegna a riconoscere da quale cultura proveniamo. Non si tratta, ora, di abolire espressioni come «bacàna» e «barlafüs» e chissà quante altre che sottendono concetti inaccettabili per la nostra sensibilità contemporanea. Anche perché nel frattempo hanno perso la loro valenza originaria. (Sarebbe come abbattere il colosseo perché è stato il simbolo dello schiavismo o far sparire i moretti per vilipendio della tolleranza razziale). Si tratta piuttosto di capire che nel linguaggio restano tracce dimenticate di un maschilismo mai sopito che continua a sottostimare in mille altri modi il valore delle donne.