Se il lupo è politico-culturale

In Italia, ma mi sembra di capire anche a queste latitudini, da oltre dieci-quindici anni il ritorno dei grandi carnivori selvatici sta diventando un grosso problema per chi vive e frequenta le montagne e le campagne europee e per chi ci lavora. Perciò, su proposta della Commissione europea, il declassamento della protezione del più diffuso di essi, il lupo, da specie «strettamente protetta» a specie «protetta», è stato votato il 3 dicembre scorso dal Comitato permanente della Convenzione per la tutela della fauna selvatica e degli ambienti naturali siglata a Berna nel 1979. Se non vi si opporranno almeno 17 Stati membri (il che è molto improbabile) dal 7 marzo prossimo il declassamento sarà in vigore. Questo significa che il lupo potrà essere cacciato, purché sia garantito un buon stato di conservazione della specie. Per diventare effettiva questa novità deve però essere recepita da ogni singolo Stato. Nel caso poi dei Paesi membri dell’Unione europea, come l’Italia, per poterla recepire occorre che prima l’UE modifichi la direttiva Habitat del 1992. Essendo infatti la tutela dell’ambiente un «obiettivo essenziale di interesse generale» a norma del trattato istitutivo dell’Unione, gli Stati membri possono legiferare soltanto nel quadro di tale direttiva e dopo la sua modifica avranno 18 mesi per adeguarvisi. Quindi in pratica perché la protezione del lupo sia effettivamente declassata nell’Unione europea si dovrà attendere nella migliore delle ipotesi fino al 2026.
Per il momento, quindi a legislazione invariata, in Italia si potranno abbattere legalmente dei lupi nell’anno in corso entro una soglia massima fissata dallo Stato nelle varie regioni tra il 3 e il 5% del loro numero complessivo stimato nell’ultimo censimento che risale al 2020-2021, ossia circa 3.300. La percentuale stabilita in Italia è come si vede minima (in Francia ad esempio è del 19%) e da allora è evidente che poi i lupi sono aumentati. Inoltre questi 100-160 abbattimenti sono possibili ma non certi poiché lo Stato centrale e le Regioni se ne palleggiano la responsabilità. Il primo li autorizza ma, pur avendo nei Carabinieri forestali (ex-Guardia Forestale dello Stato) lo strumento tecnico adeguato, non li ordina. Le seconde tergiversano, compreso il Trentino che, in forza della sua speciale autonomia, dispone di una polizia forestale propria.
Più che legislativa la questione-chiave in Italia è politico-culturale. L’intoccabilità dei grandi carnivori è un elemento della mentalità dominante, ovviamente influenzata da una maggioranza di persone che non hanno alcuna esperienza della prossimità con essi e che non ne sono per nulla informate. D’altra parte la questione è cruciale perché attiene allo spazio e al ruolo che l’uomo, in quanto unica presenza nella natura deve riconoscere agli altri esseri viventi.
A questo si aggiunge il fatto che nessuna forza politica nazionale, né di governo né di opposizione, si fa davvero carico dei problemi delle ormai esigue popolazioni montane e rurali; e quindi nessuna è disposta a dare ad esse ascolto anche a costo di dover sfidare luoghi comuni maggioritari. Non a sinistra, che è tradizionalmente «verde», ma nemmeno a destra a causa di una influente presenza animalista in Forza Italia. Chi sta in città tende a pensare è bello che i grandi carnivori siano tornati e che per non averne danno bastino delle recinzioni senza rendersi né del loro costo, né della loro incerta efficacia. E inoltre senza rendersi del pericolo che essi comunque costituiscono per persone fragili come ad esempio anziani e invalidi, feriti e infortunati, scolari in attesa presso fermate d’autobus in aperta campagna.