Editoriale

Sicurezza e bavaglio alla libertà di stampa

Il calvario di Julian Assange sembra giunto al termine, grazie al negoziato condotto dal fondatore di Wikileaks con le autorità statunitensi che ne chiedevano l’estradizione
Osvaldo Migotto
26.06.2024 06:00

Il calvario di Julian Assange sembra giunto al termine, grazie al negoziato condotto dal fondatore di Wikileaks con le autorità statunitensi che ne chiedevano l’estradizione a causa della pubblicazione di documenti militari riservati forniti dall’ex analista dell’intelligence dell’esercito USA Chelsea Manning nel 2010 e nel 2011.

Il giornalista e attivista australiano, stando alle accuse di Washington, a partire dal 2010 ha pubblicato circa 700.000 documenti riservati relativi alle attività militari e diplomatiche degli Stati Uniti. Per questo motivo la giustizia americana voleva processarlo con ben 18 capi d’accusa. Al termine del patteggiamento il 52enne ha accettato di dichiararsi colpevole solo per l’accusa di «cospirazione per ottenere e diffondere informazioni sulla difesa nazionale».

La pena concordata per tale reato, Assange l’ha già scontata con gli oltre 5 anni trascorsi in un carcere di massima sicurezza inglese che ha messo a dura prova il fisico e la mente del combattivo difensore della libertà di stampa e di informazione. Senza la mobilitazione delle autorità australiane, di numerosi attivisti per la libertà di stampa, di leader politici di diversi Paesi e persino delle Nazioni Unite, il giornalista australiano avrebbe sicuramente avuto grosse difficoltà a uscire dal mirino della giustizia americana.

Che conclusioni si possono trarre al termine, si spera, di questa sofferta vicenda? Forse il fondatore di Wikileaks ha agito troppo frettolosamente quando ha deciso di mettere in rete centinaia di migliaia di documenti USA riservati che tra l’altro, stando alle accuse mosse da Washington, hanno messo a rischio la vita di numerosi agenti americani attivi in incognito su diversi scacchieri internazionali, rivelando la loro identità.

Va però considerato che se Assange e i suoi collaboratori avessero deciso di scremare tale marea di documenti prima della pubblicazione, avrebbero dovuto investire una quantità enorme di tempo in tale attività certosina, rischiando così di venire intercettati dai servizi segreti americani prima che i compromettenti file potessero essere diffusi. Il fatto che numerose prestigiose testate di diversi Paesi abbiano collaborato con Assange nel diffondere chiare testimonianze di un modo d’agire tutt’altro che limpido dell’esercito americano in Afghanistan e Iraq, conferma l’urgenza dell’avvio di tale operazione di denuncia. Gli Stati Uniti hanno tutto il diritto di operare al meglio per garantire la loro sicurezza, ma i media hanno, e si spera potranno continuare ad avere, un ruolo chiave nel vigilare affinché la difesa della sicurezza nazionale non vada a scapito del rispetto dei diritti umani. Per questo la libertà di stampa resta un principio fondamentale, da difendere ovunque.

La nostra non vuole essere una difesa a spada tratta delle attività portate avanti da Assange e da Wikileaks, ma piuttosto la constatazione che negli ultimi anni e anche nei più recenti conflitti armati, da quello in Ucraina a quello a Gaza, la libertà di informazione è sempre più spesso messa a dura prova. È in aumento il numero di giornalisti uccisi nonostante fossero dotati degli appositi gilet «Presse» indicanti chiaramente il loro ruolo, oppure viene negato ai mass media l’accesso alle zone di guerra. E senza tali osservatori gli orrori aumentano impunemente.

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