Storie nostre
Si discorreva, una settimana fa, al Dazio Grande di Rodi Fiesso, con amici, di storie leventinesi, di letteratura nostra. (Il Dazio fu per secoli sentinella del burrone del Piottino, dogana e locanda, ombelico obbligato della valle lungo la via delle genti, oggi luogo di attività culturale, accoglienza e gastronomia). Ci chiedevamo come mai tante pagine di narrativa locale di montagna evochino soprattutto gli strappi dolorosi e lo struggimento umano dell’emigrazione, soprattutto di ‘800 e primo ‘900: partenze fatali dettate dalla miseria e dal desiderio di sottrarvisi, distacchi, addii, destini familiari stravolti. Eppure, ci si diceva, l’emigrazione dalle terre ticinesi produsse anche benessere di ritorno, aperture di sguardi, correnti d’aria di cultura e di ingegni. E del resto, basta guardarsi in giro, nei villaggi, dove accanto alle abitazioni antiche di legno sono fiorite nell’Ottocento ville gentilizie, edifici raffinati: le case di chi ha fatto fortuna ed è tornato a riprendere il filo delle proprie radici. Sappiamo bene che il lungo capitolo della emigrazione dei ticinesi ebbe anche benevoli influssi, ricadute economiche, culturali, sociali e politiche.
Bastino due nomi fra moltissimi: Vincenzo Dalberti e Stefano Franscini, i due “padri della patria” del nuovo canton Ticino, erano uomini di valle (Blenio e Leventina) cresciuti a Milano perché figli di emigrati e tornati in patria pieni di linfe nuove. Eppure, a colpire la memoria popolare e poi l’immaginazione sensibile di molti scrittori nostri furono gli strappi dei distacchi e delle famiglie spezzate. Chi partiva per la California sapeva che probabilmente non avrebbe più rivisto i vecchi genitori e molte persone care, ogni raro contatto sarebbe stato affidato alle lettere che ci avrebbero impiegato mesi ad attraversare l’America, l’Oceano e l’Europa fino a far sobbalzare cuori morsi dalla malinconia su in cima a una valle, e viceversa (Face Time e Whatsapp erano di là da venire). E quella sera, sotto le travi di legno cinquecentesche del Dazio, abbiamo provato, leggendo insieme pagine, l’emozione di quell’antico “dolore sociale”. Eccovi un’immagine: montagna leventinese, Dalpe, primo Novecento. Una vecchia madre, che ha già perso un figlio e poi il marito, accompagna giù fino alla stazione di Bellinzona i suoi due figli che hanno deciso di emigrare in America per far fortuna. Loro e lei sanno, nella ressa dei familiari che danno addio in lacrime al folto gruppo di giovanotti migranti, che si rivedranno mai più: “Intanto Giovanni e Andrea, in disparte, prendevano or l’uno or l’altro la mano della mamma, quella mano grinzosa e rinsecchita su cui brillava logoro il vecchio anello nuziale, e la andavano baciando con certi baci quasi rabbiosi; poi le si avvinghiavano al collo, che pareva la schiacciassero, due giovanottoni così, con una vecchina, e le baciavan la fronte e i capelli bianchi (…).Saltarono sul convoglio,…e li lasciassero andare, che loro avrebbero pianto in treno, la notte, nel rullìo dei carrozzoni addormentati… Il treno si mosse, mentre la vecchia si faceva largo tra la folla e correva arrembata verso l’estremità della stazione, perché i figli avessero a vederla sola, fuori dalla folla, e a portarne l’immagine piangente nei loro occhi…”.
ll brano fa parte del volume “Quando tutto va male (e altri racconti tristi”), pubblicato per la prima volta nel 1933 da Guido Calgari (1905-1969) e per fortuna riedito nel 2018 da Armando Dadò con una bella prefazione di Nelly Valsangiacomo. Calgari ebbe l’intuizione e il merito di ospitare nell’espressione letteraria questa versione diciamo così dolorosa e privata, umile, del fenomeno migratorio, anticipando di 37 anni quello che farà poi Plinio Martini con “Il fondo del sacco” nel 1970.
Possiamo immaginarci la scena di quella povera madre anziana e vedova che vede partire i suoi due figli. Sì, ci saranno le lunghe lettere che saranno bevute avidamente dagli occhi lacrimosi: ma l’abbraccio dei corpi, la carnaltà affettiva delle parole, degli occhi, dei gesti, del riso, non ci saranno mai più. Alla povera madre di Dalpe resterà soltanto la speranza che i figli perduti stiano finalmente meglio, laggiù nel remoto presunto benessere americano, resterà la cara memoria, resterà la consolazione vivida della preghiera quoidiana per bramare una vicinanza almeno di anime. Talora nei racconti di Calgari, che andrebbero riscoperti, anche il paesaggio sembra avere un’anima: “S’annunciava sulla valle un dolce crepuscolo e la valle stessa prendeva un colore violaceo che la faceva sembrare più silenziosa. Forse è sempre così, perché la valle ha sempre un’aria estatica, come se attendesse qualcuno o qualche cosa. Che non arriva mai”). Chi ha radici di montagna e di migrazioni familiari accosterà il proprio DNA di memorie a queste prose in cui un realismo accorato racconta storie amare e lascia tuttavia trapelare la dolcezza di alcune forti fedeltà familiari e una resistenza di sentimenti.