Il commento

Un Paese, due anime che non si parlano

Le americane e gli americani vedono le elezioni come un tema tabù, di cui sussurrare nei posti pubblici e di cui parlare in modo molto selettivo tra le mura domestiche
Davide Mamone
05.11.2024 06:00

Quando sette anni e mezzo fa arrivai negli Stati Uniti per scrivere dell’amministrazione Trump, mi posi come obiettivo quello di raccontare «l’America vera» lontana dai grattacieli di New York e dalle stelle di Los Angeles per capire le ragioni della sconfitta a sorpresa di Hillary Clinton nel 2016. Iniziai a viaggiare ovunque: in Arizona e in Nevada, in Iowa e in New Hampshire, in Ohio e Pennsylvania, in Wisconsin e Michigan, in Texas e in Florida. Nel giro di quattro anni, intervistai ranchers e funzionari pubblici, agricoltori e imprenditori, insegnanti e poliziotti, investitori e artisti da almeno 20 Stati diversi. E non solo scoprii che quella etichetta «dell’America vera lontana dalle coste» era una trovata per lo più di marketing giornalistico - perché Manhattan è un pezzetto d’America vera tanto quanto una contea rurale dell’Iowa -, trovai anche un popolo scisso nel mezzo. Una parte tramortita da un risultato ancora difficile da comprendere, ma motivata a cambiarne il percorso con il proprio voto successivo; l’altra parte, invece, conquistata dalle stravaganze di un presidente fuori dalla norma in tutto.

Flash forward ai giorni nostri. Con una pandemia alle spalle, quello stesso popolo, così scisso, mi è apparso in questi mesi di campagna elettorale 2024 paradossalmente più unito in un desiderio intimo ma silenzioso, tenuto nascosto: quello che la politica americana torni a essere qualcosa di cui si può chiacchierare. Ma quel desiderio è intimo e tenuto nascosto perché proprio negli anni in cui la partecipazione democratica al voto continua esponenzialmente ad aumentare negli Stati Uniti - in netta controtendenza rispetto a molti Paesi europei ad esempio -, la voglia di introdurre il tema della politica a tavola, tra amici e parenti, è paradossalmente sempre più bassa. Impauriti dal perdere il rapporto personale con la mamma o con lo zio, con la figlia o il migliore amico, le americane e gli americani vedono le elezioni come un tema tabù, di cui sussurrare nei posti pubblici e di cui parlare in modo molto selettivo tra le mura domestiche. C’è un senso di disperazione, ansia, «preoccupazione che il mondo stia per finire a ogni elezione», prendendo in prestito le parole di un giovane agricoltore dell’Iowa che a gennaio mi disse di voler votare per Nikki Haley perché almeno lei non negava l’esistenza del cambiamento climatico. Questa unità di intenti secondo i sondaggi non si sta tramutando in una scelta politica precisa. Questo perché entrambe le fazioni credono che sia il proprio candidato a poter porre la parola fine a quelle tensioni. La base di chi vota Kamala Harris, un pubblico variegato di cui è difficile prevederne i confini vista la campagna elettorale flash della attuale vicepresidente, vede nella sconfitta di Trump la fine di una parentesi nevrotica. Il cuore degli elettori di Donald Trump, un movimento nato come disorganizzata reazione popolare a un sistema ingiusto che si era dimenticato dei bisogni di molte fasce di popolazione vicine alla classe operaia, ora radicalizzatosi e in un certo senso incancrenitosi in una sorta di culto allargato della persona, vede nel suo secondo mandato un ritorno al mondo pre-pandemia. Un mondo dove il rumore di sottofondo legato al presidente repubblicano era solo legato alla gioventù della sua presidenza (non sarebbe così in questo caso) e non a questioni economiche.

Queste due Americhe non si parlano più, ma sembrano urlare al vuoto la stessa stanchezza con una voce sempre più esausta. Come possano interfacciarsi dopo il voto è la domanda da un milione di dollari che chi siederà alla Casa Bianca dovrà affrontare. Quante siano le persone da una parte e dall’altra, lo scopriremo tra qualche ora. Buon voto, Stati Uniti.