Il commento

Uscir di pena è diletto tra noi

Dopo due anni difficili, nei quali l’inflazione e le guerre hanno oscurato le prospettive di benessere e pace, in precedenza compromesse dalla pandemia, un certo ottimismo prevale sui mercati finanziari
Giovanni Barone Adesi
Giovanni Barone Adesi
12.03.2024 06:00

Dopo due anni difficili, nei quali l’inflazione e le guerre hanno oscurato le prospettive di benessere e pace, in precedenza compromesse dalla pandemia, un certo ottimismo prevale sui mercati finanziari. Nemmeno le incerte prospettive della prossima elezione presidenziale sembrano assillare eccessivamente le borse americane, che continuano a macinare nuovi massimi settimanalmente. La resilienza del mercato del lavoro americano, che sembra sopportare bene i tassi d’interesse elevati, decisi per contenere l’inflazione, ha allontanato lo spettro della recessione economica, che quasi tutti gli analisti davano per certa l’anno passato. L’aumento della massa salariale, dovuto alla creazione di nuovi posti di lavoro, e soprattutto agli aumenti salariali che finalmente iniziano a recuperare l’inflazione degli anni recenti, alimenta un boom dei consumi, spingendo l’economia americana verso nuovi record. Perfino gli Stati più poveri, come l’Alabama, godono oggi di un reddito procapite superiore a quello di Paesi europei come la Francia.

Naturalmente, questa crescita economica americana non è uniforme. Le punte maggiori di crescita si registrano sulle due coste, mentre le vecchie industrie spesso faticano a tenere il passo con la concorrenza. Il risentimento per le perduranti difficoltà, aggravate dall’arrivo di milioni di migranti dall’America Latina, spiegano la crescente polarizzazione della società americana.

Il governo ha speso trilioni di dollari per cercare di migliorare la situazione, ma questa spesa ha anche alimentato l’inflazione, che è oggi la causa maggiore del malcontento tra i ceti a reddito moderato. Adesso le casse sono vuote, ma è impossibile proporre inasprimenti fiscali a pochi mesi dalle elezioni senza compromettere le già traballanti prospettive di vittoria dei democratici.

Secondo i sondaggi tre quarti degli americani sono scontenti di votare per Trump o Biden, ma questo non sembra affliggerli eccessivamente.

Tradizionalmente disinteressati alla politica estera, fortemente influenzata dalla Casa Bianca, gli elettori americani prestano più attenzione alla composizione del Congresso. Il fatto che solo un terzo dei senatori sia rieletto ogni due anni, mentre lo sono tutti i membri della Camera dei rappresentanti, assicura un buon compromesso tra continuità e cambiamento, che consente di riparare abbastanza velocemente a eventuali derive ideologiche di destra o sinistra.

Nell’attuale contesto, nel quale ciascuno dei due partiti è ostaggio della sua ala più estrema, il miglior risultato per l’economia sarebbe probabilmente che nessuno dei due partiti controlli entrambe le camere, rendendo necessaria una certa moderazione per entrambi.

Dal nostro punto di vista europeo, pur rallegrandoci per i brillanti risultati del nostro maggior cliente, prevale una certa ansia per le sue scelte future in politica estera e, data l’età dei due contendenti, per le loro scelte per la vicepresidenza. Siamo certamente più esposti degli Stati Uniti alle due guerre in corso in Europa e in Medio Oriente.

Inoltre la nostra economia in anni recenti è stata influenzata più da slogan ideologici che da scelte ponderate, lasciandoci esposti a crescenti rischi di deindustrializzazione e soffocando le nuove tecnologie emergenti. Essere in ritardo nell’applicarle può però consentirci di osservare gli inevitabili errori altrui ed evitarli con un po’ di pragmatismo (perchè no?) americano.