Vedere lontano

Per quanto uno si sforzi, sporgendosi dal parapetto autostradale o ferroviario (meglio allora la ciclabile, senza nessuno che si innervosisca dietro le spalle), dal Ponte-diga non si riesce a vedere troppo lontano. Verso sud la vista si addentra fino alle prime pendici del Mendrisiotto; o al limite, un poco più a destra, fino alla sponda italiana di Porto Ceresio. A nord, in giornate di cielo terso si arriva forse a scorgere il Camoghè dietro il Gazzirola, sopra la capanna del Bar. Poca cosa a paragone del vasto mondo che ogni giorno, grazie ai media, entra prepotentemente in casa nostra, costringendoci ad aprire le finestre della mente e del cuore.
Eppure anche da qui, dritti in piedi tra deboli venti che cambiano continuamente direzione, è facile vedere che tira una brutta aria. In pochi mesi siamo passati dall’aiutiamoli a casa loro al difendiamoci a casa nostra: meno aiuti alla cooperazione internazionale, più denaro all’esercito (su cui oggi cali pure un velo pietoso). Non sorprende più di tanto quindi che faccia scandalo la pubblicità con un’apprendista delle Aziende Industriali Luganesi colpevole soltanto di portare qualche centimetro di tela sulla testa, come facevano le ragazze ticinesi pochi decenni or sono, fiere e serene nella loro fede. Mentre settimanalmente c’è chi grida all’invasione culturale e alla sostituzione etnica, in barba ai rapporti dell’amministrazione federale che denunciano una sempre più crescente islamofobia, mi dico che lo scandalo peggiore sta forse proprio in questa continua paura che genera paura, senza alcuno sforzo né tantomeno desiderio di incontro con l’altro. L’alternativa – per chi riesce a vedere più in là – è il recinto asfittico del villaggio gallico, privi per giunta di pozioni magiche.
Per tentare di scardinare il perimetro del nostro radicato egoismo, cercando di aprire una breccia nel giro dei carri in cui ci siamo arroccati («circle the wagons» è il motto dei pionieri americani alla conquista del West, uno slogan oggi tornato molto di moda), potrebbe non farci male ripercorrere la storia del Gruppo Ticino di Amnesty International, che ha da poco festeggiato il mezzo secolo di vita con una pubblicazione curata da Giacomo Müller. Se esiste una persona, infatti, che ha sentito l’esigenza di guardare lontano, al di fuori di sé, fin dentro gli antri più riposti delle prigioni di tutto il mondo, è stato l’avvocato inglese Peter Benenson: tormentato dalla notizia di due giovani studenti portoghesi detenuti ingiustamente dal regime di Salazar, il fondatore di Amnesty iniziò una campagna di sensibilizzazione che avrebbe fatto scuola, suscitando un’onda che non ha ancora smesso di lambire, per fortuna, le coste di molti paesi. La creazione di un’antenna ticinese, fondata nel 1974, segue di pochi anni la nascita del Comitato internazionale (1961) e dei primi gruppi svizzeri a Ginevra (1964) e Zurigo (1970), dai quali la Svizzera italiana trasse ispirazione grazie a un suggerimento dell’avvocato Paolo Bernasconi, colpito da questa nuova realtà che già aveva iniziato ad agire in modo incisivo per la difesa dei diritti umani nel mondo.
Primo Presidente dell’Associazione fu l’avvocato locarnese Antonio Snider e prima sede, significativamente, la località che già Stefano Franscini avrebbe eletto volentieri a capitale cantonale: l’equidistante Rivera. In un mondo polarizzato dalla guerra fredda, nel quale vigeva l’obbligo morale della scelta di campo («O con noi o contro di noi»: ci ricorda qualcosa?), il primo gruppo di volontari durò non poca fatica a far capire alla popolazione ticinese che era possibile – allora come oggi – interessarsi con sincerità alla sorte dei singoli, indipendentemente dalla loro appartenenza politica e confessionale. Si vede che siamo sempre stati un po’ duri d’orecchio.