Violenza domestica: una lotta di tutti
Il Cantone si mostra sicuro, nel presentare le sue risposte al tema della violenza domestica. Sottolinea la volontà di fare bene, di fare insieme, di affrontare un problema riconosciuto come «sociale». Riguarda la società tutta, ha detto Norman Gobbi. Non tocca soltanto il suo dipartimento, le forze dell’ordine, la magistratura. Non c’è solo l’atto da giudicare e da punire. E non c’è solo l’intervento. C’è molto altro. Lo si è detto e ripetuto più volte, in questi giorni, sull’onda lunga dell’ennesimo femminicidio in Italia, che si è preso - a volte anche morbosamente - le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei telegiornali. D’altronde l’omicidio della giovane Giulia Cecchettin non può non colpire, nella sua dinamica, nelle sue possibili sfaccettature. Resta però la complessità del caso, oltre che del tema. Non è facile riconoscere elementi chiari e inequivocabili, non è facile portare avanti tesi generalizzanti con sicurezza assoluta. È difficile perché si inserisce con dirompenza in un quadro familiare, comunitario, tradizionale. I due protagonisti della vicenda vengono descritti come ragazzi comuni. E noi non ne sappiamo molto di più. Vediamo le loro facce nelle fotografie, leggiamo di alcune dinamiche del passato, che molto dicevano ma non tutto. Sentiamo parlare di lauree, di fallimenti, di gelosie. Elementi sparsi per giustificare un atto criminale.
E allora si cercano spiegazioni nel territorio della cultura: siamo figli di una cultura tossica di amore possessivo, viene sottolineato. E serpeggia la necessità di attribuire colpe, al soggetto, alla sua indole, alla sua natura, alla famiglia, all’uomo, al patriarcato, alla società tutta. Il Cantone è chiamato a mostrarsi sicuro, certo, di fronte a tutto ciò, a dire: noi ci siamo. Perché questo è anche un discorso di istituzioni, di interventi rapidi e puntuali, di individuazione dei casi, dei campanelli di allarme. Anche, già. Perché poi c’è la società, la cosiddetta rete. C’è il vicino di casa, c’è il passante, c’è il genitore. Tutti siamo chiamati a riconoscere e a denunciare. Ma la società è fatta di tradizioni, di modelli, che vanno ben al di là di tutto ciò, dei singoli assassini. La sorella della vittima, di Giulia, la coraggiosa Elena, non a caso chiede che non si parli di Filippo Turetta, l’ex fidanzato di Giulia, come di un «mostro». Non sopporta che il tutto possa cadere in macchietta, nell’ennesimo caso su cui ricamare - e già stanno ricamando parecchio, i media generalisti e i siti d’oltre confine -, nell’etichetta. E sottolinea il carattere sociale del suo agire. «Figlio sano di una società patriarcale». Ma il passaggio più importante del suo messaggio, una lettera diffusa via social, è quando parla di responsabilità. «Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è».
Quando Norman Gobbi ieri ha parlato della necessità di un cambiamento culturale, abbiamo ripensato a Elena. Sappiamo - lo scrive un uomo - dei privilegi fisici del girare il mondo, e non solo la notte, da uomini, e non da donne. Ma conosciamo anche la natura - anch’essa fisica - di alcuni comportamenti. Difficilmente si potranno cancellare, anche perché alcuni modelli in auge restano degradanti - avete già sentito certi testi della musica trap? -, e perché, in più, sono tempi di guerra. E in tempi di guerra le donne finiscono con l’essere descritte e utilizzate come l’anello più fragile della società, un elemento di ricatto maschile. Il 7 ottobre scorso, in relazione al blitz di Hamas, abbiamo parlato di stupri, di corpi di donna abusati e umiliati, usati come sadici messaggi. E i capi di Stato che giocano alla guerra sono tutti uomini, o quasi, con pochissime eccezioni, spesso depotenziate. Chi dalla concorrenza interna, chi da gossip matrimoniali. L’unica cosa chiara è che occorre agire, oltre le risposte comuni, anche individualmente, negli approcci e nelle scelte di ogni giorno.