Parole chiare

Virgolette, virgolette e ancora virgolette

La rubrica del direttore Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
Fabio Pontiggia
07.06.2019 12:46

La punteggiatura è la parte della grammatica che disciplina l’uso dei segni d’interpunzione. Non è una scienza esatta. «Tra le tante norme dell’italiano scritto, quelle che riguardano i segni d’interpunzione sono meno rigide di altre. La distribuzione di alcuni segni è legata, in particolari contesti, al gusto e alle intenzioni espressive di ciascuno» (Giuseppe Patota, Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo, 2006). Purtuttavia una qualche indicazione d’uso andrebbe seguita. Sarebbe sufficiente applicare uno dei principi basilari della lingua: la parsimonia (usare solo ciò che è necessario). E invece di certi segni d’interpunzione si abusa alla grande. Di due in particolare: i puntini di sospensione e le virgolette. Qui ci concentriamo sulle seconde. Ci sono persone che, quando scrivono, si fanno autentiche overdosi di virgolette. Orrore. Per non dire di quelle che se le fanno quando parlano, mimando il doppio segno con l’indice e il medio delle due mani azionati snobisticamente nel vuoto. Doppio orrore. Ma questo è un altro discorso. Restiamo allo scritto. A scuola ci hanno insegnato che le virgolette si adoperano per il discorso diretto (Marco disse: «Domani vado allo stadio») e per le citazioni (Marx ed Engels sostenevano che «uno spettro si aggira per l’Europa»). Nei testi scientifici servono anche a indicare la periodicità: il titolo di un libro o di un film, che sono opere uniche, va scritto in corsivo (Alla ricerca del tempo perduto, Il silenzio degli innocenti), il nome di un giornale o di una trasmissione radiotelevisiva va messo tra virgolette («Corriere del Ticino», «Falò»). Poi si entra nel campo dell’uso particolare. E qui lo sconfinamento nell’abuso è frequente. L’Enciclopedia dell’italiano della Treccani ci dice che le virgolette hanno anche una funzione di distanziamento per «contrassegnare un’espressione non ritenuta appropriata» o di cui «è richiesta un’interpretazione ironica, allusiva o in generale di tipo traslato». Se scriviamo, ad esempio, l’«austerità» della politica finanziaria in Italia, significa che secondo noi non è una vera austerità. E fin qui le virgolette ci possono stare, anche se sarebbe meglio ricorrere agli aggettivi cosiddetta o presunta (in sostituzione delle virgolette, naturalmente, non in aggiunta), come si fa nel parlato. Il guaio è la seconda funzione di distanziamento (o di segnalazione): l’approvazione della legge è stato un «parto» complicato, la Camera bassa ha «fucilato» il preventivo del 2020. Perché tra virgolette? Molti nomi e molti verbi hanno un significato letterale e uno figurato. Non c’è bisogno di mandare al lettore segnali di fumo per avvisarlo dell’uso in senso figurato. Il lettore non è così stupido da non capire che nessuna deputata ha partorito e che nessun deputato ha sparato in aula. Opportunamente la Grammatica di Patota suggerisce che l’uso delle virgolette con valore allusivo va fatto solo se è veramente utile o necessario. E il più delle volte è inutile e non necessario. Secondo Luca Cignetti e Simone Fornara (Il piacere di scrivere) bisogna evitare di abusare delle virgolette con questa funzione poiché appesantiscono il testo. Più severa – e giustamente – la Grammatica italiana di Luca Serianni: questo abuso rischia di trasmettere un’impressione di scarsa competenza. Pertanto, quando vedete un testo infarcito di virgolette, diffidate. L’autore o vi considera non all’altezza delle sue presunte finezze oppure non ha cognizione della straordinaria ricchezza lessicale della lingua italiana. E quindi è un autore per modo di dire. Un autore tra virgolette.