L'editoriale

Addio a un pontefice più unico che raro

Papa Francesco arrivava a Roma dalla «fine del mondo» con l’incarico, non certo nuovo, di provare a guarire una Chiesa in profonda crisi di fedeli e di vocazioni – A conti fatti, Bergoglio è stato un vero capo spirituale, un instancabile difensore degli ultimi
Paride Pelli
22.04.2025 06:00

Eletto al Soglio pontificio il 13 marzo 2013 dopo la clamorosa rinuncia di Benedetto XVI, Papa Francesco – a partire dal nome scelto, mai assunto da nessuno dei suoi predecessori, dal primo inusuale saluto ai fedeli «Fratelli e sorelle buonasera!» interrotto subito dal caloroso applauso di piazza San Pietro – è stato e si è dimostrato un Pontefice più unico che raro. Arrivava a Roma dalla «fine del mondo», dalla lontana Argentina, con l’incarico, non certo nuovo, nell’ultimo secolo e mezzo di modernismo, di provare a guarire una Chiesa in profonda crisi di fedeli e di vocazioni.

A conti fatti, si può dire che è stato un vero capo spirituale, un instancabile difensore degli ultimi. Oggi, a poche ore dalla sua morte, giunta proprio nel momento in cui sembrava essersi lasciato finalmente alle spalle gli ultimi tribolati mesi, possiamo fare alcune iniziali riflessioni su un Pontefice che è stato fino alla fine, convintamente, per usare le sue stesse parole, «un prete di strada, un sacerdote che cammina in mezzo alla sua gente con la vicinanza e la tenerezza di buon pastore». Bergoglio era così e tale è rimasto. Dalla decisione di vivere a casa Santa Marta, in sostanza un residence, e non negli appartamenti papali, fino alla sobrietà nelle vesti talari e nel comportamento generale (compreso il protocollo da lui organizzato in vista delle proprie esequie), Francesco è stato un Papa operativo, diretto e pragmatico.

Stava, d’altronde, tentando una missione difficilissima: in un mondo dominato da una comunicazione spesso esasperata, che mette costantemente l’accento su scandali veri o presunti, dall’onnipresenza di internet e dei social media, che hanno reso più complicato il dialogo diretto con le coscienze, e da un ateismo montante e spesso apertamente anticristiano, Francesco si era dato l’obiettivo di ampliare, in quei Paesi dove questo è ancora possibile, il numero di cristiani, e allo stesso tempo di integrare, nel Vecchio Mondo, i fedeli allontanatisi dalla cattolicità. Missione e integrazione: sono queste le due colonne portanti che riassumono il suo pontificato. Perché è indubbio che Francesco è stato un Papa profondamente missionario, con poche tracce di proselitismo. Un esempio tra molti, che rende bene lo spirito con cui agiva: ancora a settembre scorso, aveva raccolto le energie residue e affrontato un complicato viaggio apostolico – il quarantacinquesimo – in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor-Est e Singapore.

Lui stesso scelse come motto per il viaggio tre parole: «Fede, fraternità, compassione». In esse, c’è tutto Bergoglio. Se Giovanni Paolo II è stato il Papa «globetrotter» per antonomasia, Francesco non ha voluto essere da meno: la differenza tra i due, è che il primo poteva rivolgersi a un mondo «giovane» e ottimista che, specie dopo il 1989, si apriva sempre di più, mentre Francesco ha dovuto fare missione in un decennio più ombroso, per tacere del periodo pandemico, dove la Chiesa ha dovuto affrontare prove aspre, con chiese chiuse e celebrazioni sospese. Alcuni lo hanno polemicamente definito «progressista»: era, invece, un Pontefice che aveva ben presente lo sconquasso di un mondo esasperatamente materialista. Ancora pochi mesi fa così aveva denunciato: «Si ritiene di poter o dover prescindere dal ricercare la benedizione di Dio, giudicandola superflua per l’essere umano e per la società civile, che si dovrebbero promuovere con le loro proprie forze, ma che, così facendo, incontrano spesso la frustrazione e il fallimento». È stato un Papa, se proprio si vuole, «politico», ma non nel senso divisivo del termine. Certo, Francesco divisioni ne ha create altrove, specialmente nel campo della dottrina. Il suo pontificato è stato punteggiato da molte discussioni interne: la riforma della Curia romana è stata, a tratti, autoritaria, la discussa esortazione apostolica Amoris Laetitia ha addirittura sollecitato un gruppo di cardinali a una correctio filialis nei suoi confronti e all’espressione pubblica di «dubia» che hanno reso più profondo il solco tra il Papa e i cosiddetti tradizionalisti.

Altre polemiche sono poi scoppiate sulle restrizioni da lui volute riguardo la messa tridentina, sulla benedizione per le coppie omosessuali e sull’apertura sulla questione LGBT, sulla condanna, senza se e senza ma, degli abusi nella Chiesa e su tante dichiarazioni rilasciate «a braccio». Diatribe e contraddizioni che hanno travalicato, e di molto, le mura vaticane. Colpa dei media che strumentalizzano tutto, si dirà, ma qui si torna all’inizio: a un Papa pastore e missionario cui premeva sopra ogni cosa integrare e allargare il suo gregge, senza tralasciare per principio nemmeno una persona sulla terra. L’eredità di Francesco è impegnativa: continuare a fare missione in un mondo che sembra sempre più in preda all’anarchia. Ma soprattutto, Bergoglio lascia un grande vuoto: ancor più in questo periodo storico, dove la sua presenza e la sua voce rassicuravano e avevano il potere di infondere speranza a tutti. Anche ai non credenti. 

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