Bilaterali, il difficile arriva adesso
Per quanto importante a livello di rapporti bilaterali, la fine dei negoziati tra Svizzera e Unione europea è solo un traguardo intermedio di un processo destinato a durare ancora qualche anno. C’è chi ritiene che, complici le elezioni, il nuovo pacchetto di accordi non arriverà alle urne prima del 2028. Per il Consiglio federale, che ha parlato di «obiettivi raggiunti», la strada resta lunga e, soprattutto, tutta in salita. Rispetto al precedente tentativo fallito nel 2021, ci sono chiarimenti e miglioramenti puntuali, cercati apposta per rendere più digeribile l’intesa, come la clausola di salvaguardia per l’immigrazione (ancora tutta da scoprire), la clausola di non regressione nella protezione dei salari e una serie di eccezioni. Ma restano tutti i grossi punti critici che rendono oltremodo complicata la ricerca di una maggioranza nel Paese, come gli elementi istituzionali e la questione della tutela del mercato del lavoro. All’entusiasmo manifestato dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, che ha parlato di «un giorno storico», hanno fatto riscontro la comunicazione fredda e asciutta del Governo – quasi presago delle difficoltà che si parano di fronte – e la circospezione dei partiti favorevoli a un’intesa con l’Unione e di una parte degli ambienti economici, che prima di pronunciarsi vogliono analizzare attentamente il prodotto del lavoro negoziale. Per quanto dura, intensa e giocata fino all’ultimo, la partita al tavolo con l’UE è forse stata la più facile. Decisamente più ostica sarà quella che si giocherà sul piano interno, come hanno ampiamente dimostrato le reazioni degli ambienti avversi all’accordo. Il dossier europeo, infatti, rimane sotto il fuoco incrociato del fronte contrario a qualsiasi indebolimento della sovranità (oltre all’UDC ne fanno parte anche una parte delle cerchie imprenditoriali) e di quello sindacale, che vuole maggiori garanzie per la tutela dei salari e fa dipendere il suo assenso anche da significativi miglioramenti delle regole interne al mercato lavoro (come l’obbligatorietà generale dei contratti collettivi di lavoro); regole sulle quali gli imprenditori non sono disposti a fare concessioni.
L’UDC, da sempre critica sugli aspetti istituzionali, ha ribadito a più riprese che il Governo vuole vendere vino vecchio in botti nuove e si appresta a sottoscrivere un contratto coloniale. Il forte aumento del contributo di coesione, una spesa già molto contestata adesso, non mancherà di suscitare altre resistenze, specie in una fase delicata per le finanze federali. L’USS, da parte sua, ha parlato di risultato insufficiente, di smantellamento della protezione salariale e di indebolimento del servizio pubblico, con particolare riferimento al settore dell’elettricità e a quello del trasporto ferroviario. Un linguaggio che stride con il messaggio rassicurante del Consiglio federale, secondo cui il dispositivo negoziato con Bruxelles protegge il livello dei salari svizzeri. I sindacati puntano probabilmente ad alzare la posta nelle trattative interne con gli imprenditori, perché sanno che il loro consenso è fondamentale in vista della campagna di voto. Ma il fatto che finora, nonostante tutti gli incontri fra i partner sociali, non si sia giunti ad un accordo, è eloquente della distanza che ancora separa le parti.
Sta di fatto che la ripresa del diritto comunitario in tutti gli accordi di accesso al mercato e il ruolo della Corte di giustizia europea nella risoluzione delle controversie continuano a rappresentare due grosse pietre d’inciampo. Il Consiglio federale parla di risultati «nettamente migliori» rispetto a quelli a cui avrebbe permesso di portare il vecchio accordo quadro, ma le posizioni restano inconciliabili. Al di là della questione di principio, c’è chi ritiene che non servano questi cambiamenti per esportare nell’Unione europea e che un collegamento istituzionale possa danneggiare a lungo termine i vantaggi della sua localizzazione.
La campagna di voto si è già aperta, di fatto, l’anno scorso, con la ripresa dei colloqui in vista del nuovo pacchetto di accordi. E come detto, fra consultazione, fase parlamentare, discussioni collaterali (come quella sull’iniziativa dell’UDC sui 10 milioni di abitanti e il tipo di maggioranza da far valere alle urne sul pacchetto UE) durerà ancora anni. Per il Consiglio federale si apre una fase difficile in cui dovrà svolgere un grosso lavoro di convincimento. Per quanto la domanda possa sembrare banale, fatta salva la necessità di avere rapporti stabili con il nostro maggiore partner commerciale, viene da chiedersi perché si debba rimettere tutto in gioco se le cose già funzionano (con gli accordi esistenti) e se una parte dello stesso mondo economico è scettica o addirittura si oppone.