L'editoriale

Clima, il dannoso ping pong ideologico

Il commento di Paolo Galli dopo un 2024 caratterizzato da nuovi record, drammatici eventi estremi ma anche da una sorta di immobilismo della politica mondiale
Paolo Galli
03.01.2025 06:00

Quello appena archiviato è stato descritto, dai suoi stessi numeri, come l’anno più caldo di sempre. Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha allargato lo sguardo: «Siamo appena usciti da un decennio di caldo mortale». Dice proprio così, la traduzione è letterale. «I dieci anni più caldi mai registrati si sono verificati negli ultimi dieci anni, incluso il 2024». È poi andato ancora oltre: «Assistiamo al crollo climatico in tempo reale». Dichiarazioni che stridono rispetto alla direzione presa dalla politica mondiale, ben rappresentata dai risultati ottenuti in occasione della COP29, lo scorso mese di novembre. Stridono anche rispetto all’interesse decrescente dell’opinione pubblica nei confronti della questione climatica. Politiche e opinioni pare seguano, insomma, la stessa onda.

E sembra in fondo un paradosso, essendo il clima il nostro habitat - il contesto in cui viviamo, in cui interagiamo e in cui cerchiamo di rimanere in salute -, eppure il nostro interesse è ciclico. E dipende da molti fattori. Molto banalmente, questi ultimi anni sono stati dominati da altre discussioni, da altre tensioni. Hanno generato nuove emergenze e, di conseguenza, nuovi bisogni. E di colpo la questione climatica è stata in qualche modo ridimensionata. Non per la scienza, che ha proseguito - pur con la spada di Damocle del disinvestimento pubblico - nel proprio cammino di conoscenza. Un cammino, questo, che non procede parallelamente a quello della coscienza collettiva. Scossa da nuovi eventi estremi, l’opinione pubblica sembra essersi spostata, con un cinismo tipico dei tempi di guerra, più sull’adattamento agli effetti del cambiamento climatico che non sulla realizzazione degli obiettivi di intervento sulle cause. E questo nonostante i toni pacati di molti scienziati che, evitando i rischi della crescente polarizzazione sul tema, provano a evidenziare le residue possibilità d’azione.

Scienziati che, in passato, hanno avuto qualche problema con Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. La sua posizione sulla questione - e in particolare, oggi, sull’Inflation Reduction Act, il piano dettato da Joe Biden per favorire gli investimenti nelle energie green - è nota. Nella fase di avvicinamento alle presidenziali, aveva dichiarato di voler mettere fine «alla guerra di Biden all’energia americana». Verosimilmente, darà quindi un impulso ai combustibili fossili, smantellando di fatto le norme ambientali e mettendo nuovamente in discussione - oltre che i fondi alla scienza - l’Accordo di Parigi. D’altronde, per Trump, «non abbiamo un problema di riscaldamento globale». Non la pensa così Elon Musk, il quale nel 2016 ammetteva di essere «preoccupato per il futuro del mondo» e ricordava che «il cambiamento climatico è reale». Musk non ha mai negato di essere stato mosso, alle sue origini di imprenditore, anche da queste preoccupazioni. Persino nella discussione con Trump su X lo scorso mese di agosto, aveva affrontato la questione. Aveva mantenuto una certa prudenza, ma non si era nascosto. «Penso che dovremmo semplicemente orientarci, in generale, verso la sostenibilità. E in effetti penso che l’energia solare avrà un ruolo maggiore nella generazione di energia della Terra in futuro».

Sarà interessante capire, quindi, quale ruolo avrà Musk sul tema e come influenzerà, eventualmente, Trump nella scelta delle politiche da attuare o da smantellare. Non ruota, però, tutto attorno agli Stati Uniti. Anche in altri Paesi assistiamo a questo ping pong politico sul clima. Una sfida dannosa proprio in prospettiva, perché invece del necessario equilibrio, impone un approccio alla questione puramente ideologizzato e strumentale.

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