L'editoriale

Donald Trump e un secondo mandato diverso dal primo

La domanda, ora, è un'altra: il tycoon adatterà la democrazia americana alla propria personalità?
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
07.11.2024 06:00

Quando venne eletto la prima volta, Donald Trump apparve, nella sua dirompente rozzezza ma anche nella sua autenticità, un corpo estraneo al sistema istituzionale americano. Del resto vinse proprio per questo. Perché dava voce, anzi grida scomposte, agli esclusi contro l’establishment. A chi si sentiva meno cittadino degli altri. Ma eravamo convinti che una grande democrazia sarebbe stata in grado di attenuarne il carattere e di assimilarne le asperità. In parte è quello che è accaduto. Molte promesse rimasero intrappolate nei limiti e nelle forme costituzionali.

Il secondo mandato si apre con un interrogativo di ben altra portata. Ovvero ci si chiede se un presidente che ha vinto nettamente le elezioni tra le più partecipate della storia, che controlla il Congresso, oltre a parte significativa della Corte Suprema, non sia in grado di fare esattamente l’opposto. Cioè di adattare, sulla spinta di un forte consenso popolare, la democrazia americana alla propria personalità, di plasmarla alla sua indole autoritaria. Per esempio perseguendo l’idea che i dipendenti pubblici non rispondano più alla legge, come avviene in uno stato di diritto, bensì al volere del capo.

Basta leggere il programma della fondazione di destra, Heritage Foundation, per temerlo. Ma nonostante tutto crediamo che i pesi e i contrappesi della democrazia americana, anche se fortemente scossi, mostreranno la resistenza di due secoli e mezzo di rule of law. Altre democrazie europee, meno antiche ma supponenti, hanno avuto diversi periodi bui e autoritari. E non sono in grado di dare lezioni all’America di Trump, eletto tra l’altro con una partecipazione al voto che in Europa non si vede quasi più.

La seconda presidenza Trump farà probabilmente tesoro dei tanti errori della prima, per esempio nella scelta dei collaboratori e dei ministri con gli incarichi più delicati. Allora fu una giostra infernale. E molti dei licenziati gli hanno anche poi voltato le spalle alle urne. Trump ha promesso di far finire le guerre. Quella in Medio Oriente dipende anche dalle scelte del leader israeliano Netanyahu, con il quale ha una sintonia personale che Biden non ha mai avuto. L’Ucraina è più sola. Dipende dalle armi e dall’intelligence americane. Ma il conflitto non può finire con la vittoria di Putin. Sarebbe comunque uno smacco per l’Occidente. E poi c’è il peso dell’industria delle armi.

Trump rimane agli occhi del suo popolo (che faremmo male in Europa a giudicare negativamente) il paladino degli esclusi, l’arma più affilata da scagliare contro l’establishement, contro la lobby di chi sa e guarda gli altri con disprezzo, contro gli interpreti un po’ ottusi della filosofia woke, di chi crede che i diritti sociali vengano molto dopo quelli civili. Ma Trump è tutt’altro che estraneo al potere economico. Non lo era nemmeno otto anni fa, ma allora appariva un parvenu, un palazzinaro arricchito. Oggi è l’alfiere di un vasto schieramento di imprenditori digitali e tecnocrati che ritiene la democrazia un intralcio all’innovazione, la concorrenza un fastidio, le regole meglio darsele da soli. Il capofila è ovviamente Elon Musk. Sono l’élite contro la quale Trump non andrà mai (e i democratici avrebbero fatto altrettanto).

I mercati finanziari intanto applaudono. Non c’è un presidente più sfacciatamente pro business di Trump. Un negoziatore, quanto abile si vedrà. Ha riscoperto le criptovalute che appunto salgono. Ha cambiato idea sull’auto elettrica, grazie a Musk. Ma non sulla transizione ecologica che ha sempre ritenuto essere un’inutile scocciatura. E lo hanno votato anche i giovani che dovrebbero essere più sensibili alla causa green. Imporrà dazi, oltre che alla Cina, il vero nemico, anche sulle esportazioni europee. Ma non si può dire che i democratici non abbiano fatto gli interessi delle aziende del loro Paese. L’Inflation reduction act era una forma di concorrenza sleale all’industria europea. Sull’immigrazione Trump promette la chiusura dei confini e «deportazioni di massa». Ci sforziamo di pensare che, quest’ultimo, sia solo uno slogan efficace per quanto lugubre.