Firme e rattoppi peggiori del buco
Tra tutte le notizie, giunte in questi giorni, sulla falsificazione di migliaia di firme di iniziative popolari, ce n’è almeno una confortante: secondo la Cancelleria federale, non ci sono prove che il popolo sia stato chiamato alle urne su proposte riuscite aggirando la legge. Restano comunque sconcerto, interrogativi e sospetti per una vicenda che rischia di incrinare la fiducia nel buon funzionamento della democrazia diretta. La Fondazione svizzera dell’energia - in modo non proprio disinteressato - ha messo in dubbio la validità dell’iniziativa «Stop blackout» per revocare il divieto di costruire centrali nucleari e ha chiesto di sospendere l’iter del controprogetto. Da parte loro, dopo aver depositato giovedì a Berna 108 mila firme in favore dell’iniziativa per l’inclusione, i promotori si sono premurati di comunicare di non aver fatto capo ad alcuna società commerciale. Al di là delle rassicurazioni ufficiali, si può comprendere chi si chiede se tutto quello che dal Paese arriva a Berna è frutto di processi regolari, se quanto scoperchiato dalle indagini giornalistiche non sia soltanto la punta dell’iceberg e se il Codice penale è una barriera sufficiente per prevenire abusi su larga scala. Nel caso delle falsificazioni, soprattutto nella Svizzera romanda, non si può parlare di fulmine a ciel sereno. Il Canton Vaud ha segnalato il problema sin dal 2019, mettendo anche i Comuni sul chi vive. Ginevra e Neuchâtel hanno vietato la raccolta di firme a pagamento per iniziative e referendum a livello cantonale e comunale. Negli ultimi anni, tuttavia, a Berna sono state respinte le proposte per chiedere un regime più restrittivo. La Cancelleria federale, che da tempo era al corrente delle inchieste penali in corso, è finita nel mirino per non aver informato gli organi competenti.
Intanto, mentre sul piano penale sono in corso indagini e, su quello amministrativo, vengono annunciati maggiori controlli, è soprattutto su quello politico che si concentrano le attenzioni, alla ricerca di contromisure per ripristinare la fiducia. L’indignazione è condivisibile, ma bisogna anche fare attenzione a come ci si muove perché il terreno della democrazia diretta è molto delicato. Il rischio è di mettere rattoppi peggiori del buco. Giustamente, la Commissione delle istituzioni politiche del Nazionale ha tirato il freno, ritenendo prematuro proporre nuove modifiche di legge allo scopo di vietare la raccolta di firme a pagamento. Il fenomeno in sé non è nuovo (in passato ci sono stati casi di ricorso ai disoccupati o di ricompensa ai propri dipendenti da parte di un’azienda per ogni sottoscrizione raccolta) ma si è diffuso in particolare con lo sviluppo del voto per corrispondenza. Il fatto che oggi più del 90% dei votanti non si rechi più ai seggi ha tolto a molte piccole associazioni la possibilità di raccogliere adesioni alla loro causa durante le consultazioni popolari. Oggi, soltanto le grandi organizzazioni (in primis sindacati e grossi partiti) dotate di una rete capillare di funzionari (anch’essi pagati) o di simpatizzanti mobilitabili per l’occasione hanno i mezzi per raccogliere facilmente le firme per iniziative e referendum. Gli altri sono costretti a rivolgersi a chi lo fa senza fini ideali e per mero guadagno. Stabilire un confine fra pagamento indiretto e diretto non è sempre facile, anche perché a fronte di chi presumibilmente è stato colto con le mani nella marmellata c’è chi svolge il proprio lavoro correttamente. Il sistema può non piacere, ma infliggere una sanzione collettiva sarebbe come limitare l’esercizio dei diritti popolari per una parte del Paese. Per contro, introdurre requisiti particolari per esercitare e un sistema di autorizzazione darebbe maggiori garanzie sul piano della correttezza senza penalizzare la partecipazione politica. Si è anche proposto di introdurre una firma elettronica: in Italia è stato fatto e il risultato ha dato ragione a chi ha voluto questo cambiamento (per il referendum sull’autonomia è stato raccolto mezzo milione di firme in meno di un mese). La questione è controversa. Sarebbe sicuramente un modo per superare i limiti del sistema attuale, visto che i Comuni possono controllare solo nome e cognome, data di nascita e residenza, ma non l’autenticità della firma. Ma anche qui ci sono due tipi di resistenze: quella di chi ritiene il sistema non ancora sicuro e la firma elettronica problematica dal punto di vista della protezione dei dati; e chi teme che la digitalizzazione porti alla moltiplicazione delle richieste popolari, mandando in tilt gli equilibri su cui poggia la democrazia semidiretta. Insomma: bisogna andare oltre il dibattito emotivo e mettere in conto i possibili effetti indesiderati di ogni misura. Intervenire è necessario, andarci piano è doveroso.