L'editoriale

I meccanismi naturali del cervello che apprende

La stucchevole e grottesca polemichetta stagionale sull’uso dello smartphone a scuola ha almeno il merito, anno dopo anno, di rendere sempre più evidente un paio di concetti che soltanto la malafede ormai cerca di celare dietro il solito polverone sul nulla
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
11.10.2024 08:12

La stucchevole e grottesca polemichetta stagionale sull’uso dello smartphone a scuola ha almeno il merito, anno dopo anno, di rendere sempre più evidente un paio di concetti che soltanto la malafede ormai cerca di celare dietro il solito polverone sul nulla. L’aver già sacrificato sull’altare di una confusione, a volte ingenua e troppo spesso complice, una generazione intera di studenti, ovvero di giovani cervelli in formazione che apprendono le nozioni fondamentali per diventare gli adulti e i cittadini di domani, ha prodotto un collettivo rimbambimento digitale che adesso gli osservatori più attenti definiscono, con maggior raffinatezza, come la manifesta «vulnerabilità cognitiva» degli scolari contemporanei. No, ormai dovremmo averlo capito, qui non c’entra per nulla il rapporto tra tecnologia e nuove forme di didattica, qui stiamo parlando di un micidiale strumento di distrazione di massa dichiaratamente progettato, nell’interesse economico di pochissimi, per annientare la fragile capacità di concentrazione umana, fondamentale per qualsiasi forma o modalità di apprendimento. Come d’altronde è chiaro che in tutta questa celebrata tecnologia, rebus sic stantibus, sono più le cose che cediamo rispetto ai benefici che otteniamo: è comodissima certo, ma ci impoverisce, ci rende versioni ridotte di noi, meno creativi, meno premurosi, meno empatici. E smettiamola per favore, come sottolinea instancabile il saggista e psicoterapeuta Alberto Pellai, di ripeterci la fandonia dello strumento «neutro», quello che, come l’ago, le forbici o la bicicletta basta farne buon uso e nessuno si farà male. La verità è che lo smartphone non è un semplice strumento, ma un ambiente. «Un ambiente dall’enorme potere additivo, totalmente architettato per promuovere l’ingaggio dei nostri circuiti dopaminergici che da quell’ambiente sono stimolati e attivati al punto tale da spingerci a non poterne fare a meno e da spingerci a fare sempre più cose nell’online e sempre meno cose nella vita reale». Un «ambiente» allora che con i delicati meccanismi cerebrali dell’apprendimento non dovrebbe avere nulla a che fare e d’altronde nessuno si sognerebbe di studiare sullo smartphone le concordanze omerico-leopardiane dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Semplicemente perché quello non potrà mai essere «l’ambiente» dell’apprendimento e della conoscenza.

Così dando un taglio alle chiacchiere Regno Unito, Francia, Finlandia, Svezia e Olanda, tra le altre, hanno da tempo, nel plauso generale, decretato il divieto degli smartphone a scuola così come molte città e contee degli Stati Uniti, a cominciare da New York, stanno prendendo provvedimenti in questo senso. Anzi, in un recente sondaggio quasi il 50 % degli studenti americani della cosiddetta Generazione Z (quelli cioè tra i 18 e i 27 anni, vale a dire i più travolti dalla smartphonizzazione dell’esistere) ha con candore dichiarato che sarebbe stato meglio se i social network, principale diciamo così «ragione sociale» di ogni smartphone, «non fossero mai stati inventati», riconoscendone da assidui utilizzatori gli effetti negativi sulla salute mentale e le paradossali conseguenze che «portano all’isolamento e alla disinformazione ».

Per questo, lo ripetiamo ancora una volta, se la scuola non vuole definitivamente abdicare al suo fondamentale ruolo educativo appare ovvio che gli smartphone ne debbano rimanere ben lontani e che anzi si mettano in guardia i più giovani (e vulnerabili) dai pericoli insiti nella natura stessa di quei prodigi tecnologici progettati apposta per annientare curiosità, attenzione e capacità di apprendimento. E qui scatta qualcosa di istintivo che ci rimanda ai meccanismi che il nostro cervello attiva per imparare. Con il sempre più fondato sospetto che oggi proprio perché abbiamo a disposizione di pochi clic, senza nessuna fatica e senza nessuna intermediazione, la conoscenza universale, alla fine non sappiamo e non impariamo più nulla.