Il fallimento dell'intesa tra Cantone e Comuni
Quella che si registra tra differenti livelli istituzionali è una datata, per non dire perenne, dialettica. A fasi alterne si trova intercalata da momenti di dopata euforia dettata da situazioni contingenti, ma mai la stessa è di lunga durata, appassisce velocemente come un bel fiore privato dell’essenziale acqua. Tra Cantone e Comuni, ma anche tra Confederazione e Cantoni, siamo entrati in una fase nella quale dopo aver alzato la guardia, ognuno a protezione del proprio orticello, si registrano le prime offensive. Vien da dire nulla di nuovo sotto il sole di questo caldo autunno. È degli scorsi giorni la fiammata d’ira da parte dell’Associazione Comuni ticinesi (ACT) che al Cantone le ha suonate e le ha cantate seguendo il lamento (non nuovo), secondo il quale l’azione del Consiglio di Stato finirà con il ridurre gli enti locali a semplici sportelli per effetto dell’erosione del margine di manovra e delle competenze attribuite dalla politica cantonale a quella comunale. A repentaglio ci sarebbe pure la piramide che regge il nostro sistema democratico. La presa di posizione dell’ACT è insolitamente dura, ma corredata da una risoluzione che esorta le parti al tavolo, puntando sul ruolo del Cantone, sollecitato «ad attivare un serio e concreto tavolo di dialogo tra Cantone e Comuni che permette di discutere ed eventualmente concordare preventivamente le scelte cantonali che possono avere conseguenze sugli enti locali». Parole che, sinceramente, non si possono più sentire né leggere, una terminologia intimamente legata al più datato politichese della forma senza sostanza e che dovrebbero fare spazio invece ad un sano realismo. E allora, pane al pane e vino al vino e riprendiamo la frase pronunciata dal direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi: «L’acqua è poca, ossia scarseggia, e la papera non galleggia». Insomma, senza mezzi finanziari ci si può scordare il quieto vivere istituzionale e ci si deve attendere che anche le istituzioni si facciano la guerra come accade tra i partiti. Questa è la cruda e nuda realtà.
Lo strappo istituzionale non è intimamente legato a situazioni contingenti e farlo credere è un falso storico. Oggi a fare la voce grossa con uno scritto è l’ACT, ieri a recarsi a Bellinzona picchiando i pugni sul tavolo era la Grande Lugano (anche prima di affrontare il processo aggregativo) facendo sentire la voce dei tenori politici del tempo (tra gli altri Giorgio Giudici e Giuliano Bignasca). Quella piattaforma di dialogo che viene nuovamente sollecitata è la stessa che allora doveva produrre soluzioni lungimiranti, per qualcuno addirittura miracoli. Le prime hanno avuto breve durata, i secondi, molto semplicemente, non esistono. Quanto sia stata inconsistente la piattaforma lo vediamo oggi, nel momento in cui più che vuote parole servirebbero corroboranti fatti. Per non parlare del progetto «Ticino 2020» realmente mai decollato e mai giunto a una meta condivisa dalle parti a quel tavolo. «Da anni discutiamo scenari di ripartizione dei compiti senza arrivare a conclusioni definitive. La tensione tra istituzioni è palpabile, e la responsabilità di questa situazione ricade su tutti». Sono sempre parole di Gobbi, certamente realistiche, indubbiamente oneste, ma sinceramente tardive. Non ci si può permettere di dichiarare un fallimento politico e riprendere la stessa strada, con le stesse persone e le medesime dinamiche credendo che tutto, in qualche modo si aggiusterà.
L’intesa ad ampio respiro non c’è stata ed evitiamo che si torni ai piedi di una scala che nessuno ha la forza e la motivazione per scalare propinando ai cittadini (che sono gli stessi per Cantone e Comuni) vere e proprie promesse da marinaio.