L'editoriale

Il labile diritto a un mondo interiore

Minaccia alla libertà cognitiva? Non è nuova purtroppo, nuovi però - e molto più insidiosi - sono gli strumenti per metterla in atto
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
21.11.2024 06:00

La minaccia non è nuova purtroppo, nuovi però e molto più insidiosi sono gli strumenti per metterla in atto. Strumenti che a qualcuno posso far pensare alla fantascienza più pessimista ma che invece, anche se non ce ne rendiamo conto, sono già la nostra realtà di ogni giorno. Rispondendo in un intervento del 1784 alla domanda «Che cos’è l’Illuminismo?» un certo Immanuel Kant sulla rivista Berlinische Monatsschrift scriveva che «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini […] rimangono volentieri minorenni per l’intera vita; e per cui riesce tanto facile agli altri ergersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! […]. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione». Vi ricorda qualcosa? Qualcuno sostiene che, miti come agnellini, stiamo entrando nel transumano della minorità senza nemmeno rendercene conto, in un contesto in cui il Grande Fratello orwelliano, a ben pensarci, fa quasi tenerezza. Perché quando le tecnologie invece di concorrere per accrescere e diffondere il sapere lo azzerano incorporandolo e soprattutto centralizzandolo in macchine, algoritmi o intelligenze artificiali (chiamatele come vi pare), creano un essere umano sempre meno sapiens e sempre più macchina. Ed ecco che la libertà di pensiero e la capacità critica del singolo individuo entrano in una crisi difficilmente reversibile con conseguenze inimmaginabili e molto poco letterarie.

Anche perché il prossimo passo delle cosiddette neurotecnologie (lo dicono gli scienziati stessi che se ne occupano) sarà di manipolare la mente molto più e molto meglio di ieri «rubando» la conoscenza e il sapere prodotto dai sapiens e accumulato nel tempo, per trasformare tutto in numeri, dati, tabelle, schemi, piani, algoritmi e compagnia imperante. Valicando l’ultima frontiera della privacy: la nostra mente. Oggi il mercato dei dispositivi neurali indossabili è in rapidissima crescita: dagli smartwatch alle fasce elettroniche, che inibiscono colpi di sonno ai camionisti oppure cancellano traumi o dipendenze. Ma, al di là degli indubbi benefici, queste tecnologie utilizzate senza tutele ci minacciano seriamente, come testimoniano i rilevatori di produttività da indossare sul posto di lavoro e i dispositivi del neuromarketing oppure quelli per monitorare l’attenzione degli studenti in classe o l’insorgere di pensieri cospirativi.

E allora difendersi vuol dire Difendere il nostro cervello come spiega in un saggio (appena uscito in italiano per Bollati Boringhieri) dal titolo imperativo e urgente Nita Farahany che insegna Diritto e Filosofia alla Duke University nella Carolina del Nord. Un libro in cui l’autrice propugna l’introduzione a livello globale di un nuovo diritto umano: quello alla «libertà cognitiva», che finora non è garantito da nessuna Costituzione o legge del pianeta Terra. Spiegando in modo chiaro e accessibile come comprendere le implicazioni legali ed etiche legate a una tecnologia che rischia di controllare ogni nostra interazione, ridefinendo la nostra stessa idea di umanità. Ma soprattutto dimostrando quanto sia importante il diritto all’autodeterminazione per quanto riguarda il cervello e le esperienze mentali. «Chiunque apprezzi – ricorda opportunamente l’autrice – la possibilità di fare pensieri e riflessioni in privato, vale a dire la possibilità di avere un “mondo interiore” dovrebbe avere a cuore la libertà cognitiva». Da qui la necessità – scrive Farahany – «di definire i contorni della libertà cognitiva, adesso, prima che sia troppo tardi», senza ovviamente buttare via gli usi positivi, come in medicina, delle neuroscienze e delle neurotecnologie, sempre cercando un compromesso tra interessi individuali e sociali.

Abbiamo insomma bisogno – secondo la studiosa di origini iraniane- di poterci basare su un chiaro ed esplicito diritto alla libertà cognitiva, cioè il diritto di ogni individuo a mantenere il controllo sui propri processi mentali e sulle proprie esperienze cognitive; a formarsi opinioni, prendere decisioni e sviluppare idee senza coercizione; a proteggere i pensieri, le emozioni e le esperienze mentali dall’accesso non autorizzato e dalla sorveglianza non voluta; ad assicurare che le persone non siano soggette a interventi che alterino i loro stati mentali senza consenso informato. Altrimenti il futuro non si chiamerà Blade Runner, si chiamerà dittatura.