L'editoriale

Il mondo nuovo e la difficile libertà

Nell’era dell’intelligenza artificiale e della guerra cognitiva, i social sono il teatro di un conflitto senza esclusione di colpi
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
08.02.2025 06:00

Si conoscevano, si conoscevano eccome. Aldous Huxley e George Orwell, separati anagraficamente solo da una decina di anni, furono, a Eton, legati in origine da un rapporto docente-allievo. Nel prestigioso college del Berkshire, Huxley, dal 1917, insegnava francese e professava distopie e Orwell (quando ancora si chiamava Eric Arthur Blair) imparava, immaginando di superare il maestro. Restarono in contatto per molti anni, finché Huxley cercò di coinvolgere Orwell nella Fabian Society; Orwell, appena capito il motivo per cui quei nobili e raffinati inglesissimi intellettuali si radunavano, fuggì a gambe levate, inorridito da quel socialismo troppo poco anarchico e troppo d’élite (quasi «radical chic», diremmo oggi) per i suoi gusti avversi ad ogni ingiustizia sociale. E da lì ognuno per la sua strada: da una parte Aldous Huxley, il privilegiato, l’intellettuale, il dandy. Dall’altro George Orwell, l’umanista, il combattente, il rivoluzionario amante della natura e solitario anarcoide. Sempre intenti però a scriversi, a criticarsi e a fare le pulci ai due rispettivi capolavori della letteratura distopica 1984, nel caso di Orwell, e il meno fortunato, ma fondamentale, Il mondo nuovo di Huxley scritto, tra l’altro, nel 1932, una quindicina di anni prima di quello del discepolo e rivale. Un romanzo visionario di cui invece dovremmo ricordarci con maggior consapevolezza e frequenza per la sua strabiliante capacità profetica e soprattutto perché può davvero aiutarci a leggere e capire gli estremi del nostro presente.

Un libro, però, sulla cui macchinosa ricezione, almeno nella nostra lingua, hanno pesato anche alcune scelte grammaticali e lessicali di Huxley difficilmente traducibili in italiano, a partire dall’ambiguo «brave» del titolo (Brave New World diventato per comodità solo Il mondo nuovo) con buona pace di un aggettivo che in inglese ha un’infinita gamma di sfumature che ne mutano il senso. Dall’ironia che Shakespeare volle mettere in bocca a Miranda nella Tempesta («O brave new world/That has such people in ‘t») passando per eponimi di coraggiosi eroi scozzesi, ribelli principesse neodisneiane, ispirati album di band heavy metal dell’East End, riusciti capitoli dell’avvincente saga di James Bond e dotte dissertazioni di premi Nobel per la Letteratura, come quella tenuta qualche anno fa a Chiasso dal meraviglioso (e, lui sì, assolutamente «brave») drammaturgo nigeriano Wole Soyinka. Anche perché il capolavoro di Huxley introduce un elemento che nemmeno 1984 o Fahrenheit 451 di Bradbury hanno osato esplorare fino in fondo: il controllo delle menti. Nella vicenda futuribile dello Stato totalitario perfetto, votato al culto di Ford, dove i cittadini sono emancipati da fame, guerre e malattie e possono accedere liberamente ad ogni piacere (grazie ad una sorta di droga tecnologica, la Soma) in cambio della rinuncia a emozioni e sentimenti e ad ogni manifestazione della propria individualità, a colpire è soprattutto un aspetto: condizionati e asserviti, gli esseri umani rinunciano «volontariamente» alla verità e alla propria libertà.

Esattamente il rischio che stiamo già correndo secondo David Colon, docente di Storia della comunicazione, media e propaganda presso Le Centre d’Histoire de Sciences Po di Parigi, il cui ultimo, raggelante, saggio è appena stato tradotto in italiano da Einaudi con il titolo La guerra dell’informazione. Gli Stati alla conquista delle nostre menti. Un’analisi che sa andare oltre la dicotomia geopolitica dittature/democrazie visto che ormai tanto le prime quanto le seconde ricorrono senza esitazione, sia pure per ora con fini diversi, a una nuova tecnologia dell’informazione mirata a far credere ciò che non è, a spaventare, intimorire, persuadere, pietrificare la facoltà di pensare e la capacità critica, manomettere i fondamenti cognitivi, ingannare, deformare il reale, imporre il regime subdolo dell’immaginario, confondere il vero con il falso e così via. Con la fine della Guerra fredda, il mondo (tutto il mondo, si badi bene) pensava che la democrazia liberale e la libera informazione avessero vinto. Le nuove tecnologie promettevano un accesso universale alle informazioni che dovevano demolire gli ultimi regimi autoritari e favorire l’emancipazione dei popoli. E invece è accaduto l’esatto contrario: il web e la globalizzazione dei media hanno conferito all’informazione una dimensione più strategica che mai e hanno trasformato la natura del potere. Nell’era dell’intelligenza artificiale e della guerra cognitiva, i social sono il teatro di un conflitto senza esclusione di colpi, che ha come posta in gioco le nostre menti. Nell’epigrafe al suo capolavoro Huxley pretese una citazione del filosofo russo anticomunista Nikolaj Berdjaev che recita così: «E forse un secolo nuovo comincia: un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno «perfetta» e più libera». Forse ci siamo.