L'editoriale

Il piccolo mistero dei due volti di Kamala Harris

Era falsa la rappresentazione della vicepresidente pallida di Biden o è eccessiva, ora, l'enfasi nel descriverla brillantemente lanciata verso la Casa Bianca?
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
21.08.2024 23:00

C’è un piccolo mistero che avvolge la figura, politica e mediatica, di Kamala Harris. Quando era soltanto vicepresidente di Joe Biden non si può dire che la sua reputazione fosse così smagliante. Non sembrava assolutamente in grado di suscitare gli entusiasmi della convention democratica di Chicago. Le ragioni erano varie. La scarsa prova nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione - tema centrale della campagna presidenziale -, i continui litigi con lo staff, le modeste prove di leadership. Poi d’improvviso, grazie al ritiro di Biden, ormai prepensionato, la candidata democratica ha ribaltato i sondaggi. Decisa, sicura. Ha persino annullato l’emozione provocata dall’attentato a Donald Trump la cui eco si è allontanata di colpo nel tempo. L’ex presidente è costretto a inseguire, non senza affanno. Persino la scelta come vice di uno più trumpiano di lui, come J.D. Vance, appare meno azzeccata di quella parallela di Tim Walz, sorridente, bonaccione, moderato con qualche punta di radicalismo.

A questo punto, il dilemma è il seguente. Era falsa la rappresentazione della vicepresidente pallida di Biden o è eccessiva l’enfasi nel descriverla oggi brillantemente lanciata verso la Casa Bianca? Se guardiamo alle scene di Chicago, dovremmo convincerci delle sue qualità e, dunque, chiederci perché la leadership del partito, la cerchia di potere intorno a Biden, sia stata così disattenta e poco lungimirante per un quadriennio e abbia tenuto una superstar dietro le quinte. E non solo: anche domandarci se noi europei, nel seguire gli avvenimenti americani, non siamo troppo condizionati da tutto quello che pensiamo, amiamo (e detestiamo) degli Stati Uniti. Proprio perché riteniamo di conoscere bene, per infinite ragioni, storiche, letterarie, di costume, siamo più esposti a pregiudizi e semplificazioni. E indotti a proiettare gli schemi della politica europea su quella americana, semplificandola troppo. Potremmo chiamarla sindrome dello spettatore prevenuto. Come se quello che sta accadendo fosse la trama di un film o di una serie di successo che ci porta a privilegiare simpatie e vicinanze, trascurando del tutto o quasi interessi e convenienze nazionali. Se guardato senza le lenti ideologiche della sinistra che lo ha appoggiato senza riserve, Biden ha accentuato una sorta di concorrenza sleale nei confronti dei Paesi europei, soprattutto sul piano energetico e nell’attrazione dei capitali (Inflation reduction act). Tutt’altro che amichevole. Trump piace di più ai sovranisti, ne è quasi l’idolo assoluto. Ma la destra europea dimentica che la politica dei dazi (perseguita anche dai democratici) e l’isolazionismo tendono a far pagare al Vecchio continente un prezzo elevato, se non insopportabile, in quanto a benessere e sicurezza. Harris è vista con simpatia in Europa anche perché potrebbe essere la prima donna a rompere il «soffitto di cristallo», dopo aver favoleggiato (solo da noi) su una fantomatica ipotesi Michelle Obama. Ma la candidata non spinge troppo su questo tasto. La guerra a Gaza è argomento delicato, imbarazzante. Nel sostenere Israele, Harris teme di non avere quei consensi delle minoranze arabe e di colore senza le quali non vincerebbe. Ma anche Trump non appare più così solidale con Gerusalemme, per timori analoghi. Colpisce che nella patria del capitalismo entrambi, seppur con toni diversi, abbiano fatto credere che un governo, anche il più potente, possa tranquillamente controllare i prezzi. Una forma di populismo statalista che in altri tempi sarebbe apparsa come un’eresia. Ma in campagna elettorale si promette ormai ciò che si sa di non poter mantenere. E qui le differenze tra America ed Europa si assottigliano fino a scomparire.

In questo articolo: