Il ruolo dei media nonostante Zuckerberg
Libertà di espressione. «Sono qui oggi perché dobbiamo continuare a sostenere la libertà di espressione», diceva Mark Zuckerberg nel 2019 in un discorso alla Georgetown University. Stava lavorando da anni, quindi, a un ritorno alle origini. In quella stessa occasione, a Washington, l’inventore di Facebook - che oggi si traduce in CEO di Meta - contrappose la propria posizione a quella del Governo cinese. E sfruttando la Costituzione, aggiunse: «Le persone che hanno il potere di esprimersi su larga scala rappresentano un nuovo tipo di forza nel mondo, un quinto potere accanto alle altre strutture di potere della società». Già allora qualcuno iniziò a subodorare la possibile svolta, che altro non è che un ritorno al passato, all’idea di una piattaforma in cui ognuno si senta libero di esprimere quanto gli passa per la testa. Senza filtri. Già, proprio senza filtri.
Eppure, Zuckerberg era stato a lungo criticato proprio per gli usi strumentali di Facebook da parte di questa o quell’altra forza politica o ideologica. Era stato attaccato al punto da decidere - era il 2016 - di fare qualcosa, di snaturare (ai suoi occhi) la propria agorà digitale, lavorando sui limiti, sulle pratiche di determinazione del vero e del falso. Aveva previsto un programma di fact-checking, con l’appoggiodi organizzazioni esterne. Una sorta di assunzione tardiva di responsabilità del proprio ruolo, e dei rischi legati a esso. Tra questi rischi, naturalmente, la diffusione di notizie false.
Ora, con Donald Trump nuovamente in carica - è questione di ore -, Zuckerberg ha criticato quello stesso sistema di fact-checking messo in piedi anni prima. «Troppa censura». Più nel dettaglio, ha detto: «I fact-checker sono stati troppo politicamente parziali e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata». L’impressione - chiamiamola così - è però che il primo emendamento della Costituzione non sia davvero così centrale nei ragionamenti di Zuckerberg. E neppure lo è l’interesse per la fiducia della popolazione mondiale nelle istituzioni e in un generico «altro» da sé. Solista, individualista, libertario, Zuckerberg non ha mai mostrato particolare empatia nei confronti del bene pubblico, della società fuori. Ha seguito, sin da studente, i propri interessi.
Gli stessi evidenziati martedì, in Svizzera, dalla Commissione federale dei media, che ha messo in guardia il Paese - speriamo a cominciare dalla politica - dallo strapotere delle piattaforme digitali sul dibattito pubblico e sulla formazione di un’opinione democratica. Ci ha ricordato che «gli algoritmi delle piattaforme non seguono obiettivi giornalistici o democratici, bensì in primo luogo obiettivi commerciali». Era il caso di ricordarlo? Sì, come era pure il caso di proporre possibili misure di contenimento. Non siamo i primi a parlare di «epidemia da disinformazione». D’altronde le minacce arrivano dall’Occidente come da Est. In Romania sono saltate le elezioni presidenziali a causa di riconosciute ingerenze di terzi. E allora tutti guardano a Putin. Ma molti, altrove, guardano anche a Musk, per esempio al suo invito alla Germania di votare Alternative für Deutschland.
Sembra quasi che ormai tutto si giochi sulle piattaforme digitali, sull’eco delle parole di pochi. E i media tradizionali? Dal ritratto dipinto dalla stessa Commissione federale, risulta chiaro come i media siano in qualche modo dipendenti dalle piattaforme digitali. Nonostante tale dipendenza e le difficoltà nello smarcarsi da essa, nonostante la tendenza della società - in particolare nelle sue fasce più giovani - ad accontentarsi di ciò che trova sulle piattaforme digitali, sono però chiamati anche a resistere alla tentazione di un appiattimento nelle letture dei fatti, mantenendo intatti i propri ideali. L’obiettivo, indipendentemente dal punto da cui si guardano e raccontano i fatti, resta quello della veridicità e della contestualizzazione delle informazioni che si offrono ai propri utenti. Certo, le difficoltà economiche pesano sulle scelte dei media, sulla loro profondità e accuratezza, sulla loro dipendenza dalla visibilità garantita da quelle stesse piattaforme. È proprio in questo contesto che il sostegno ai media ha un senso. E chi non lo riconosce, probabilmente ha interesse che le informazioni corrano solo lungo il flusso digitale. Con tutti i rischi del caso.