L'editoriale

Israele, la testa del serpente e la guerra senza confini

Il colpo inferto dallo Stato ebraico a Hezbollah è durissimo ma probabilmente non decisivo
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
30.09.2024 06:00

Nemmeno uno scrittore raffinato come Amin Maalouf sa spiegarsi la metamorfosi tragica del suo Paese. Il Libano nel quale nacque era un modello di convivenza tra etnie e religioni diverse. Una piccola Svizzera nel Medio Oriente. «Alla fine della Guerra Fredda – spiega lo scrittore franco libanese in una intervista a Repubblica – siamo passati da un mondo diviso per linee ideologiche a un mondo diviso per linee identitarie». E queste ultime, nel Paese dei cedri, si addensano e si scontrano, in una miscela mortale. Hassan Nasrallah, 64 anni, è stato ucciso dal fuoco israeliano che in due settimane ha fatto mille morti e seimila feriti. L’interrogativo morale è se nell’eliminare il capo di un gruppo terroristico, come nel combattere in questi mesi Hamas, non vi sia il limite di tante, troppe morti innocenti. Non sono danni collaterali. Nasrallah non era solo il capo di un’organizzazione terroristica, ma anche la guida di un partito sciita, armato e sostenuto dall’Iran, in uno Stato che di fatto non c’è più. Anzi, che l’organizzazione di Nasrallah ha contribuito a distruggere nella sua sovranità continuamente violata. Soprattutto dalla Siria e dall’Iran. Quando Hezbollah venne fondata, Nasrallah aveva 25 anni. Il suo potere assoluto derivava anche dai conflitti contro Israele nel 2000 e nel 2006, dall’aver perso «in azione» il diciottenne figlio Hadi, dall’aver condotto una vita sobria e religiosa a differenza di quella dorata dei capi di Hamas a Doha. Hezbollah è stata sospettata di aver fatto fuori, nel 2005, il premier Rafic Hariri, musulmano sunnita. Non rappresenta tutto il Libano, ma nell’immaginario collettivo sembra averlo assorbito totalmente. La morte di Nasrallah ha suscitato persino dei festeggiamenti tra i sunniti. E gli accordi di Abramo, tra alcuni Paesi arabi e Israele, nonostante tutto quello che è accaduto quest’anno, resistono. Netanyahu nel suo discorso all’assemblea semideserta delle Nazioni Unite (quella frase sulla palude antisemita se la poteva risparmiare) ha messo nel cartello dei buoni, della pace e della prosperità, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Segnati in verde, con il titolo sulla benedizione al contrario della maledizione dei suoi veri nemici, tra cui l’Iran.

Il colpo inferto da Israele all’organizzazione che da undici mesi ininterrottamente lancia missili contro il proprio territorio, è durissimo, ma probabilmente non decisivo. Il serpente della violenza religiosa e identitaria ha più teste. E temiamo che la reazione, legittima ma sproporzionata, dello Stato ebraico, non riduca il proselitismo del terrore bensì lo aumenti. Israele non si ritiene soddisfatto del successo militare e di intelligence come dimostra l’azione contro gli Houthi di ieri. Il freno degli Stati Uniti, in campagna elettorale, è solo verbale. Il rischio di un coinvolgimento diretto militare di Teheran non è così remoto. Intanto si avvicina l’anniversario del pogrom del 7 ottobre nel quale vennero trucidate 1.200 persone, 250 prese in ostaggio e solo 100 liberate. L’attacco di Hamas che come Hezbollah vuole la cancellazione fisica di Israele. Questo non va mai dimenticato, nonostante le responsabilità del governo Netanyahu. L’isolamento internazionale di Israele è un danno per tutto l’Occidente. Ma rimane senza risposta un altro interrogativo. Perché, nei Paesi democratici, pur nella legittimità di manifestare a favore dei sacrosanti diritti dei Palestinesi, molti quel 7 ottobre se lo siano semplicemente dimenticato.