L'editoriale

La destra che bisticcia su tasse e Sovrano

Il no alla Tassa di collegamento e il potenziale strascico per Lega e UDC
Gianni Righinetti
16.10.2024 06:00

Non ci nascondiamo, la Tassa di collegamento non ci è mai piaciuta, e su queste colonne questo è stato scritto con granitica coerenza dal 2014, ormai dieci anni fa. Da quando il Governo ha tentato per la prima volta di ribaltare il balzello dei posteggi sulle spalle di automobilisti ed economia. Poi nel 2016 è arrivato il sì popolare, indubbiamente risicato con l’avallo del 50,7% dei votanti, ma in democrazia i voti non si pesano, si contano. Quindi poco importa che fu una vittoria dei favorevoli per un soffio. Il resto della storia è arcinoto, fino all’epilogo di lunedì con il Gran Consiglio a cassare per direttissima e per via politica la tassa nella versione ridotta dalla paura di un Governo ormai smascherato dai fatti: alla storiella della riduzione del traffico per il tramite di quella che suonava come una «multa», nessuno ormai credeva più. Era solo il goffo tentativo di garantire allo Stato un’entrata di 15 milioni di franchi, una manna e per giunta lineare, al punto che già solo per questo ha fatto cadere la maschera di chi, senza vergogna, l’aveva promossa e difesa come una soluzione salvifica per rilanciare il mezzo pubblico e demonizzare quello privato. A guardare bene però, il risultato dell’abbattimento fa gioire solo a

metà, perché negare al popolo che l’aveva voluta di tornare ad esprimersi per determinarne il futuro è, democraticamente parlando, una vergogna altrettanto grande di quella di chi questa tassa l’ha voluta facendo leva su una base legale dormiente. La prova di forza a suon di colpi bassi nell’aula del Legislativo è stata uno spettacolo poco decoroso, in molti hanno contribuito, ma a riecheggiare sono state soprattutto le dure parole usate dal consigliere di Stato e direttore del Dipartimento del territorio Claudio Zali. Solitamente uomo di poche parole, per difendere la tassa e la via delle urne, ha fatto uso del suo acume di personaggio di legge di lungo corso, peccato che abbia condito quell’esposizione di livello con termini da osteria. Peccato, davvero peccato, perché sulla sostanza che voleva indicare la via popolare, aveva tutte le ragioni.

Il confronto si è acceso in modo particolare all’interno della destra ticinese, con l’UDC testardamente contraria ad ogni ipotesi di soluzione popolar-democratica, ma assalita dall’ingordigia di vincere bene, vincere tutto e subito, senza doversi nuovamente confrontare con il Sovrano. Imbarazzo è parso trasparire tra le fila della Lega, movimento che il caro-tassa lo ha sempre visto come fumo negli occhi, ma di fronte alla Zali-tassa si è divisa, generando un derby che aveva dato vita ad accese discussioni (ma sappiamo bene che ai leghisti delle proprie frizioni non piace parlare in pubblico) all’interno del gruppo parlamentare e tra co-coordinatori che avevano un’idea differente. Anche questo è un segnale che ci dice che la Lega è definitivamente cambiata: quando era un movimento che si poteva permettere di sostenere tutto e il contrario di tutto era festa grande al grido «Evviva la Lega» che univa tutti come fa un coro allo stadio. Oggi le cose non stanno più così e si pretende che tutti marcino come soldatini dalla parte giusta, per rimproverare però puntualmente alla domenica agli altri partiti incongruenze e lotte interne. Il paradosso lo si raggiunge poi quando Lega e UDC non riescono ad intendersi su un caposaldo come i diritti popolari, litigano per determinare se il Sovrano vada interpellato o meno e finiscono per incartarsi su questo concetto come pure sulla bontà o meno di una tassa.

Premesse ampiamente negative che oggi certamente vedono il presidente cantonale dell’UDC Piero Marchesi avere la meglio su Zali, ma in politica la ruota gira e c’è da chiedersi se lo stato di tensione perenne a destra dello scacchiere istituzionale, faccia davvero bene a questo fronte. Perché se da una parte la matematica elettorale sembra dirci chiaramente che nel 2027 l’UDC potrà raggiungere il seggio in Governo, per tagliare quel traguardo c’è ancora molta strada da percorrere e decisioni politiche da prendere. I due partiti sono entrati in una spirale di picche, ripicche, sgambetti e vendette. Forse il malumore da parte di alcuni leghisti prolungherà la campagna acquisti dei democentristi in Via Monte Boglia. Ma l’astio pronunciato e le lotte di potere (da una parte e dall’altra) per l’elettore d’opinione sempre più liquido e sempre meno incline a farsi dettare cosa fare, non sono un jolly da rischiare in politica.