L'editoriale

La geopolitica dell'immagine nei leader mondiali

Tutta questa inevitabile attenzione per l’immagine, la prestazione del singolo leader preoccupato di parlare alla propria opinione pubblica e di non perdere voti, derubrica inevitabilmente la realtà
© KEYSTONE/REUTERS POOL/Denis Balibouse
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
20.08.2025 06:00

Ormai i vertici hanno un copione. I protagonisti sembrano degli interpreti. Sia ad Anchorage, sia a Washington, la sceneggiatura ha avuto il suo peso. Imprevedibile. Si fa la Storia ma si fa anche la televisione, si cura l’immagine personale sulla Rete. Temiamo che queste ultime preoccupazioni possano, in qualche caso, persino prevalere sulla prima. Più in Occidente che in Russia dove i media sono addomesticati e sofisticati al punto da essere anche armi che inquinano l’opinione pubblica dei Paesi liberi. Ed è paradossale che l’effetto positivo di ciò che si è visto in questi giorni sia andato soprattutto a beneficio di Putin. Il presidente russo ha goduto di un’inaspettata cerimonia di riabilitazione del proprio ruolo di potente della Terra. Trump, al quale va riconosciuto il merito di aver aperto una trattativa (impossibile con Biden), dovrà dimostrare non solo di aver raggiunto una pace, giusta o sbagliata che sia, ma di aver fatto soprattutto un grande affare per l’America. Le premesse (le vendite di armi) ci sono tutte. Zelensky, che alla fine dovrà accettare una mutilazione del proprio territorio, avrà il problema di spiegarlo alla propria opinione pubblica. Forse non basteranno le garanzie di sicurezza che inaspettatamente anche Trump gli offre. Chi osserva tende a giudicare i fatti sulla base delle impressioni, persino delle prestazioni televisive e via social dei leader coinvolti. La sostanza dei problemi rischia di passare inevitabilmente in secondo piano, soprattutto se le conseguenze di ciò che si decide sono lontane nel tempo.

Non osiamo pensare che cosa sarebbe accaduto se, nei tredici giorni della crisi dei missili a Cuba, nel 1962, vi fossero stati i social network. O se durante la conferenza di Yalta i protagonisti - come è accaduto non solo tra Putin e Trump in Alaska ma alla Casa Bianca, con Zelensky e i leader europei - si fossero esibiti in un discorso introduttivo, magari rispondendo a qualche domanda dei giornalisti. La Storia sarebbe stata migliore o peggiore? L’attenzione non è solo alle parole dette ma anche al body language, al linguaggio del corpo. Zelensky lunedì è apparso rinfrancato, anche davanti a una cartina del suo Paese che riassumeva generosamente le pretese di Putin. Che differenza con l’umiliazione del febbraio scorso! L’Europa è sembrata contare qualcosa pur nella sua inedita rappresentanza sparsa. Trump ha trattato con sufficienza Ursula von der Leyen. Suo figlio, Donald junior, ha postato su X un’immagine, creata dall’intelligenza artificiale, in cui i leader europei sembravano, uno seduto accanto all’altro, scolaretti in attesa dell’esame. L’immagine di una purtroppo reale debolezza del Vecchio continente creata con una spudorata falsità. Efficace. Così come si è tentato, inutilmente, di cancellare l’imbarazzante applauso rivolto dal presidente americano, sul tappeto rosso, al suo omologo russo, trattato come un socio, non come un rivale. Vero, però.

Tutta questa inevitabile attenzione per l’immagine, la prestazione del singolo leader preoccupato di parlare alla propria opinione pubblica e di non perdere voti, derubrica inevitabilmente la realtà. Al fronte si muore come e peggio di prima. La guerra in Ucraina assomiglia a quelle cruente, nelle trincee di sangue, del Novecento. E così quello che accade nella Striscia di Gaza. La documentazione sulla Rete è copiosa, ma anche falsamente insidiosa. Con il risultato di vedere tutto e, nello stesso tempo, di dubitare di tutto. E così ci si concentra sulle parole, sul linguaggio, sui volti dei potenti mentre la realtà, che pure scorre con inedita crudezza sotto i nostri occhi, viene inevitabilmente ricacciata nel tempo e nello spazio.  

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