L'editoriale

La guerra, la pace e lo scacchiere elvetico

Quello che ci ha detto e quanto rimane dopo la Conferenza sulla pace al Bürgenstock
Gianni Righinetti
17.06.2024 06:00

Una Conferenza sulla pace senza che al tavolo del dialogo fosse seduto l’aggressore, una dichiarazione sprovvista della firma di alcuni Paesi presenti sul Bürgenstock e una due giorni elvetica con il leader ucraino a fare «gli onori di casa». Elementi che dovrebbero indurre chiunque a parlare di un’occasione mancata, se non di una conferenza fallita. Ma le cose non stanno in questi termini, la piccola Svizzera non esce con le ossa rotte da questo vertice che aveva preso una piega insidiosa già solo per quanto descritto in partenza. La nostra Svizzera, in quello che rimane un complesso scacchiere in un contesto nel quale è più facile sbagliare una mossa piuttosto che azzeccarla, ha risposto «presente». Certo si poteva decidere di rimanere immobili, ma questo atteggiamento non ci si addice e di questo ne andiamo fieri. Le critiche, specie quelle giunte dal mondo politico elvetico, si sono pertanto dimostrate piuttosto ingenerose e il bilancio va stilato non partendo da quello che sarebbe stato l’illusorio obiettivo della sottoscrizione della pace (che nessuno ha mai ipotizzato). Riconosciamo alla presidente della Confederazione Viola Amherd e al capo del DFAE Ignazio Cassis di aver raccolto il massimo e il meglio possibile da uno dei punti più suggestivi della nostra nazione, con un solo neo: aver concesso al leader ucraino Volodymyr Zelensky di orientare eccessivamente il percorso di questa conferenza. In futuro occorrerà maggiore capacità e caparbietà, senza farsi guidare da una parte nel conflitto a due passi di casa nostra, indipendentemente da quale sia questa parte. In particolare, per noi svizzeri che abbiamo la neutralità e l’indipendenza di giudizio che scorre nelle vene, non è tollerabile dover sottostare a diktat o alcun diritto di veto.

La piega presa da questa conferenza non avrebbe mai permesso una correzione della rotta in corsa, nonostante le parole di apertura alla Russia (più di facciata che di sostanza), le regole d’ingaggio erano state, imposte al nostro Paese il quale, paradossalmente, non poteva più dire la sua in maniera compiuta per aggiustare la rotta. Poi, va ribadito, la Russia avrebbe trovato ogni pretesto per non esserci. L’insistenza avrebbe indotto Vladimir Putin a sbattere in maniera rumorosa la porta, la diplomazia e la moderazione elvetica hanno permesso di limitare i danni d’immagine. Anzi, dal profilo dell’impatto di questa conferenza siamo usciti meglio di quanto si potesse immaginare solo un paio di settimane fa.

Credere che i Paesi BRICS con delegazioni giunte in Svizzera (Brasile, India e Sudafrica) avrebbero fatto uno sgarbo ai potenti assenti – Cina, ma soprattutto Russia – non rientrava nella sfera delle cose immaginabili. Ma va riconosciuto che al Bürgenstock, in barba a tutte le Cassandre, si è parlato per la prima volta di pace, un percorso che rimane lungo e impervio, che richiederà la collaborazione di tutti, Russia in primis. Putin e i suoi vogliono mantenere la leadership di quella che oggi è ancora una sanguinosa partita e in questa logica vanno lette le dichiarazioni rilasciate sabato alla nostra testata dall’ambasciatore russo a Berna: «Un vero processo di pace negoziale inizierà da zero e senza alcun riferimento al Bürgenstock». Un approccio, in sprezzo alla diplomazia, che la dice lunga sulle reali buone intenzioni dell’aggressore. E bene hanno fatto Amherd a dire che la Svizzera «è pronta a organizzare nuovi incontri» e Cassis ad aggiungere che «parleremo anche con i Paesi non presenti».

Finalmente si è parlato di pace: indipendentemente dal peso specifico del documento, il passo nella giusta direzione è stato compiuto. Se due anni fa, quando il conflitto conosceva ancora una fase criticamente intensa, la Svizzera si era prestata in maniera un po’ frettolosa a ospitare a Lugano una Conferenza sulla ricostruzione, oggi non si è badato al business che una guerra sempre genera lasciando morti sul terreno dopo aver foraggiato l’industria delle armi, per poi passare la palla a chi mira a ricostruire a suon di altri miliardi quanto abbattuto. Ma nessuno potrà mai ridare vita a chi è deceduto, serenità e sicurezza in chi ha vissuto ed è sopravvissuto con ferite che faticheranno a cicatrizzare. La speranza di lasciare ai libri di storia questa guerra, oggi è un poco più forte di ieri.