La politica che ammette di far fatica a comunicare

Durante tutta la settimana scorsa, con una intensità quasi insolita, in molti hanno analizzato e commentato a più riprese e in più sedi quanto scaturito dalle elezioni federali, interrogandosi sulle ragioni dei risultati deludenti di alcuni partiti. Anche chi di solito accetta il risultato deludente o al di sotto delle attese della propria formazione politica e mette in conto di rifarsi al giro successivo, questa volta ha preferito scendere in profondità e tentare di comprendere perché liste sulla carta promettenti abbiano fatto flop o perché, ad esempio nella destra, alcuni rapporti di forza si siano di fatto capovolti. I motivi delle non poche «sorprese» emerse dall’ultimo voto sono naturalmente molteplici e su queste colonne abbiamo provato a darne conto da tutte le prospettive, in modo indipendente e sereno, mossi soltanto dalla passione giornalistica di capire e raccontare quanto fosse accaduto. Poco chiosata finora, ci sembra, è stata tuttavia la giustificazione addotta da diversi presidenti dei partiti in arretramento o perdenti. Il refrain che abbiamo ascoltato più spesso da loro, non solo negli interventi a caldo durante lo spoglio delle schede ma anche nei giorni successivi, è infatti il seguente: «Non siamo stati capaci di comunicare efficacemente le nostre idee e i nostri programmi». Un paradosso, verrebbe da dire, per chi fa politica. Nell’era in cui la comunicazione è dilagata in ogni settore della nostra vita, privata e pubblica, e dove si hanno mille strumenti a disposizione, dai giornali cartacei - seguiti da un pubblico riflessivo - fino ai social media - dedicati a un’audience più disposta alle sollecitazioni immediate -, «non essere stati capaci di comunicare» è qualcosa che non vorremmo più sentire. E allora, a malincuore, ci viene il sospetto che alcuni partiti e alcuni candidati si siano fatti una idea troppo semplicistica della comunicazione, non solo politica ed elettorale.
In un mondo come quello di oggi, molto problematico e iperconnesso, e specialmente in un cantone di frontiera come il nostro, dove si intrecciano e ricadono questioni transnazionali, fare politica, comunicarla e infine candidarsi, soprattutto a delle elezioni federali, significa non solo avere elaborato un programma politico a 360 gradi, ma anche aver tentato in ogni modo di spiegarlo, chiarificarlo e promuoverlo nella sua complessità a tutte le fasce di popolazione con diritto di voto. Si è obbligati, in sostanza, a partire dai contenuti e dal dibattito sui medesimi. Fare un post su Facebook, su Instagram o su X non è fare politica e non è neanche «comunicare la politica», nemmeno se si passano molte ore al giorno a rispondere ai propri follower. Al massimo, ci sia permessa questa piccola provocazione, è come parlare al bar o durante una risottata, sebbene su supporto digitale.
Il rischio che alcuni candidati potessero scambiare i like, le discussioni movimentate sui social o il chiasso generato a livello internazionale da alcune azioni ad alto tasso di provocazione mediatica (e qui ci è impossibile non portare l’esempio degli estremisti del clima) per consenso politico, era del tutto concreto. E puntualmente si è verificato. Intendiamoci, anche la vittoriosa UDC ha una comunicazione capace di parlare alla pancia dell’elettorato e con pochi (provocatori) slogan. Ma in questa competizione elettorale federale, la sua virtù è stata non essersi fermata soltanto a questa modalità. Con costanza, è stata abile a far passare il messaggio di un partito che a Berna avrebbe lavorato senza indugi anche per il «periferico» Ticino, spiegando nei dettagli le proprie posizioni, soprattutto sui temi più spinosi e sentiti dalla popolazione. Ha di fatto dato vita a una campagna «nazionale» ma in un contesto locale, che alla luce dei risultati si è rivelata efficace. Altri si sono invece gettati nella mischia politica, nel movimentismo generico, nei social, in una comunicazione magari sì incalzante ma incentrata su modelli ormai esausti, e paradossalmente priva di contenuti precisi e identificabili. È stata, in generale, quella delle Federali, una campagna elettorale condotta un po’ troppo in superficie, mentre correnti profonde attraversavano, e continuano ad attraversare, il Ticino. E l’elettore, con fiuto innato, queste cose le sente e vota (o non vota, ça va sans dire) di conseguenza.