L'editoriale

La politica è bloccata, ora tocca alle casse

Il massiccio no contro la riforma del secondo pilastro segna la seconda importante vittoria in pochi mesi per i sindacati e la sinistra in fatto di pensioni
Giovanni Galli
23.09.2024 06:00

Il massiccio no contro la riforma del secondo pilastro segna la seconda importante vittoria in pochi mesi per i sindacati e la sinistra in fatto di pensioni (in marzo era stata approvata la 13. AVS) e un’altra cocente sconfitta per tre partiti di Governo e le principali organizzazioni economiche. I primi hanno riaffermato il loro potere di veto nella politica sociale, affossando una legge risultato di un ampio quanto laborioso compromesso in Parlamento. Un potere di veto, mutatis mutandis, che hanno nuovamente dimostrato anche i contadini, gli altri vincitori di giornata, con la netta bocciatura dell’iniziativa biodiversità. Il no alla riforma previdenziale era atteso ma è andato oltre le previsioni, forte anche del fatto che aggregava resistenze di segno opposto: quelle preminenti, tramite le organizzazioni dei lavoratori che denunciavano il peggioramento delle condizioni dei futuri pensionati, con lo slogan fuorviante ma efficace «pagare di più per ricevere meno»; quelle delle associazioni economiche delle professioni a bassi salari che temevano un aumento del costo del lavoro; e quelle di una parte degli stessi assicuratori, contraria al sistema di compensazioni per la generazione di transizione, ritenuto inefficace e costoso. Oltre a correggere un’aliquota di conversione vieppiù irrealistica - il nodo è ormai sul tappeto da oltre 15 anni - la riforma era animata da buone intenzioni: favorire il processo di risparmio, aumentando la parte di salario assicurato e abbassando la soglia d’entrata; un passo pensato innazitutto per i bassi redditi e chi lavora a tempo parziale, come le donne, sfavorite per svariate ragioni rispetto agli uomini nel secondo pilastro. Ma a giudicare dai sondaggi, è possibile che le resistenze siano venute proprio dalle categorie che si volevano sostenere, non entusiaste all’idea di dover versare maggiori contributi su una retribuzione già bassa per poi riscuotere solo dopo molti anni. Non da ultimo, anche se non riguardano la previdenza professionale, i recenti errori di calcolo commessi dall’UFAS sulle prospettive finanziarie dell’AVS hanno sicuramente avuto un peso nell’alimentare la sfiducia verso le soluzioni decise dalla politica. La fiducia è tutto e se viene a mancare servono tempo e fatti per recuperarla.

Su un terreno così scivoloso, la macchina propagandistica della sinistra ha avuto buon gioco, approfittando anche del fatto che quella delle pensioni è una materia ostica e che, specialmente in questo caso, le conseguenze dirette per il singolo assicurato non erano pienamente valutabili. Come sempre avviene in questi casi, nel dubbio o si sta a casa (eloquente la partecipazione al voto: solo il 44%) o si vota no. In questo caso, si tratta del terzo no consecutivo, dopo quelli del 2010 e del 2017, a una riforma della LPP. È un voto che lascia parecchie incognite, sia per quanto riguarda l’integrazione dei bassi redditi nel secondo pilastro sia nell’ottica dell’equità intergenerazionale, per i travasi di fondi dagli assicurati ai pensionati riscontrati in passato - ma sempre in agguato in periodi di tassi bassi - negli istituti meno solidi.

Il voto di ieri va al di là della riforma in quanto tale. I sindacati hanno dimostrato di essere un ostacolo inaggirabile e un attore col quale bisogna venire a patti. Ma proprio per il fatto che esistono due rigidi fronti contrapposti, al di là dei proclami è lecito dubitare che ci sarà presto una nuova riforma. Nell’ottica della sinistra l’assenza di riforme è comunque un vantaggio, perché più aumenta la sfiducia nel secondo pilastro più un domani ci sarà disponibilità nell’elettorato ad accettare un potenziamento del primo. Il blocco delle riforme nel secondo pilastro è quindi destinato a continuare, anche perché la prossima battaglia in ambito pensionistico riguarderà il finanziamento dell’AVS. Oltre a dover decidere chi chiamare alla cassa, ritornerà al pettine il nodo dell’aumento dell’età di pensionamento.

Ora, è significativa la reazione dell’Associazione delle istituzioni di previdenza, che ha invitato la politica a fare un passo indietro e ad evitare riforme affrettate. Bisogna rafforzare in modo sostenibile, dice, la fiducia nel secondo pilastro. Per raggiungere questo obiettivo sono essenziali «uno stop legislativo immediato» e una valutazione globale della situazione. Il no scaturito dalle urne è letto come un’investitura per le casse pensioni ad assumersi la responsabilità di adeguare la previdenza professionale all’aumento dell’aspettativa di vita e al mercato del lavoro in evoluzione. Detto altrimenti, si tratta di lasciar cadere una volta per tutte il discorso dell’aliquota di conversione e di sviluppare piani pensionistici al di fuori del settore obbligatorio. Bene, purché si vada avanti.