La rivoluzione digitale e la pillola azzurra

Forse viviamo dentro Matrix e non ce ne siamo accorti. Matrix, per chi non lo sa, è il celeberrimo film di Lana e Lilly Wachowski in cui l’eroe, Neo, vuole scoprire la verità nascosta dietro all’apparenza. L’apparenza (nel film) è la nostra esistenza quotidiana nei luoghi e con le attività di tutti i giorni. La verità (sempre nel film) è che ognuno di noi vive nudo, immerso nel liquido viscoso di un’incubatrice, con il corpo collegato a cavi elettrici, all’interno di una torre circolare che ospita miliardi di incubatrici contenenti altri esseri umani. In Matrix, quindi, noi uomini siamo stoccati nelle torri e veniamo utilizzati come «batterie» biologiche per fornire energia a macchine dotate di intelligenza artificiale che si sono ribellate all’umanità e l’hanno soggiogata. Solo che non lo sappiamo, perché le suddette macchine hanno benignamente programmato i nostri cervelli con una neuro-simulazione interattiva costruita sul modello del mondo del nostro tempo per tenerci calmi e immobili dentro le torri. In altre parole, crediamo di alzarci, andare al lavoro, avere una famiglia, divertirci e guadagnare, mentre in realtà siamo le batterie usa e getta dei robot.
Nella geniale invenzione distopica dei fratelli Wachowski, quindi, la tecnologia ci ha resi schiavi «felici» e inconsapevoli perché siamo stati programmati per ignorare il vero stato delle cose. In una mitica scena del film, Neo è invitato a scegliere se prendere una pillola rossa per scoprire la tragica realtà dei fatti o una pillola azzurra per continuare a credere nella realtà artificiale che ci è stata inculcata.
Al di là della trama inquietante e, per fortuna, inverosimile, sul piano simbolico il film suggerisce che noi uomini tendiamo a vivere nell’illusione e a credere ciecamente al racconto della realtà che ci viene imposto. Ora, senza arrivare al complottismo fantascientifico di Matrix, vale la pena di chiedersi se non siamo troppo acritici di fronte alle narrazioni dominanti della realtà. Per esempio, in situazioni come quelle dei Paesi dittatoriali, dove alla popolazione viene raccontata una versione distorta del reale funzionale all’obbedienza al leader supremo. Dobbiamo però chiederci se, in un modo molto più sottile, queste narrazioni distorte non avvengano anche nel mondo libero.
Per esempio: non è che diamo per scontata la «rivoluzione digitale»? Siamo sicuri che l’avvento dirompente delle tecnologie nelle nostre vite sia irreversibile, che non esista più la possibilità di cambiare registro e tornare indietro agli usi e costumi dell’era analogica, o andare avanti ma in un futuro non digitalizzato? La domanda sembra assurda. Forse non lo è. La rivoluzione digitale è prima di tutto una storia di speranza e progresso, una narrazione positiva che ci è stata fornita, anzi martellata, dai protagonisti (interessati) della rivoluzione stessa: le grandi compagnie digitali che si auto raccontano come il motore insostituibile del cambiamento. Così la loro profezia di un mondo di libertà, di efficienza e di potenza numerica si auto avvera. Si arriva a sacralizzare il digitale, i grandi manager delle aziende iTech sono visti come profeti, guru e Messia del pianeta stupendo che verrà (come sostiene lo studioso dell’USI Gabriele Balbi nel saggio «L’ultima ideologia»). Dimenticando di dire, per esempio, che il digitale è assai meno green di quanto pensiamo.
Sia chiaro: tifiamo per la digitalizzazione. La riteniamo un miracolo. I suoi vantaggi sono sotto gli occhi di tutti. Inoltre, oggi è così pervasiva e promettente che anche a noi sembra impossibile trovare soluzioni migliori per il futuro del pianeta. Ma un minimo scarto di riflessione va fatto. Non vorremmo aver ingoiato troppo in fretta la pillola sbagliata.