La Venere di Urbino

È stato un maestro dell’equilibrio fra opere dedicate al sacro e opere di circostanza, dalla ritrattistica alla simbologia, dedicando alla Madonna opere sublimi come l’Assunzione. Tiziano fu un innovatore ma rappresenta il compimento e il coronamento del Rinascimento italiano. Conclude infatti quella magnificente stagione superando con l’uso del colore le inclinazioni del suo tempo - caratterizzate dalla marcata prevalenza della forma disegnata e del fasto cromatico. Veniva da una famiglia in cui sono presenti altri pittori e l’apprendistato presso Gentile e Giovanni Bellini acuiscono la sua sensibilità all’uso del colore libero dal rigorismo formale. Vero e proprio imprenditore d’arte, fu il richiamo di grandi figure storiche, in primo luogo Carlo V, del quale lasciò pregevoli ritratti, godendo di una privilegiata familiarità con l’imperatore, al quale si deve la frase: «Ci saranno altri imperatori ma non ci sarà mai più un Tiziano». Se l’opera che preferisco è l’Assunzione quella che vorrei è la Venere di Urbino per la sua aura inconsueta di castità del volto che quasi ne sottolinea un’innocenza violata soltanto dal destino che le era stato assegnato. L’erotismo tuttavia pervade tutta la figura. Certamente è più donna che dea e la sua nudità non induce a sotterfugi erotici; ha una sua malinconia forse dovuta alle troppe tentazioni che ha ispirato. I volti e i ritratti di Tiziano inclinano sempre a reconditi messaggi di condizioni reali. Anche un’altra sua Venere, nell’Amor Sacro e Amor profano, sembra compiaciuta più della sua condizione umana che non divina, quasi malinconica nella sua distaccata grazia. Forse intatta anche se lussuriosa. Un po’ come quella del Botticelli, che è la pagina più laica e più bella di quel mondo irripetibile; grazie alle sue aperture arriveranno con le loro nudità mirabili il Giorgione e Tiziano. Questa Venere sembra essere più il simbolo dell’amore suscitato dal sentimento che dalla lussuria. Sono lontani dei e uomini che hanno costellato il mito di Venere e quel viso, staccato dal corpo, potrebbe essere di una madre o di una sposa. Era una modella nell’anonimato - ma forse oggi identificata - e appare anche in altre opere e in una con la pelliccia. Sullo sfondo una domestica cerca qualcosa in una cassapanca e accanto le sta un’altra donna, e la loro presenza è contrapposizione alla nudità. Non è accostata ad animali che ne accompagnano il mito, come il cigno e la colomba ma un cagnolino, possibile simbolo di fedeltà, è sul letto della dea. E quelle rosette nella sua mano sono il simbolo dell’amore. Il suo sguardo è anche di attesa accattivante. Come in una sorta di promessa per chi si affida all’amore. Suscita desideri e tentazioni, nonostante la distaccata innocenza della sua espressione. Dall’opera fu suggestionato Manet che quando in Italia la vide ne trasse una «copia» personalissima per la sua celebre Olympia. Verdi ne aveva una copia in casa mentre Mark Twain lo definì «il quadro più indecente, il più vile, il più osceno che il mondo possiede». Giudizio avventato. Non aveva capito. O non aveva gusto.