Le sensazioni a volte prevalgono sui numeri
Negli Stati Uniti ha vinto la «vibecession», è inutile girarci attorno. Si tratta di un neologismo inglese che coniuga due concetti: le vibrazioni personali, intese come percezioni e la recessione economica. È un fenomeno riscontrato negli scorsi anni in molti sondaggi sul sentimento degli investitori e dei consumatori non solo negli Stati Uniti. Anche in altri paesi occidentali molte persone appartenenti al ceto medio vivono la medesima situazione o percezione. Si può star lì finché si vuole a misurare tutti i numeri dopo la virgola della performance economica dell’amministrazione guidata da Joe Biden - che è stata oggettivamente positiva, è beninteso - ma ci sono aspetti che sfuggono ai radar degli enti di ricerca che calcolano minuziosamente il PIL o il rallentamento della dinamica inflattiva, oppure il tasso di disoccupazione. La retorica elettorale di Donald Trump è stata però in grado di intercettare queste ‘vibrazioni’ e canalizzare la frustrazione di chi pur lavorando come un forsennato, magari barcamenandosi tra due impieghi, non ha percepito benefici di sorta dalla crescita economica, men che meno dal rallentamento dell’aumento dei prezzi. Senza doversi per forza immergersi nella realtà sociale statunitense, è quello che sperimentiamo tutti giorni anche in Svizzera. Una volta che abbiamo vissuto un periodo più o meno prolungato di prezzi in risalita e di un costo della vita generalmente più cara rispetto solo a pochi anni prima, il processo di normalizzazione dell’inflazione fa in modo che le scelte di consumo si fanno con molta più cautela. Semplificando, facciamo più attenzione ai prezzi e si spende con meno disinvoltura.
Le ricette di Donald Trump saranno in grado di riallineare le percezioni dello statunitense medio alla fredda realtà dei dati macroeconomici? È questo il vero interrogativo che ci si pone non solo negli Stati Uniti.
Come è noto, il programma di governo del neoeletto presidente degli Stati Uniti si basa principalmente su tre punti: classici tagli fiscali in deficit; misure protezioniste a favore dell’industria americana e una vaga revisione della spesa pubblica. Per quanto riguarda il primo punto, l’obiettivo è quello di ridurre ulteriormente le imposte per le imprese e i redditi personali, eliminando anche le tasse su mance, straordinari e sussidi. Una proposta chiave è invece la riduzione dell’aliquota fiscale sugli utili delle imprese al 15%. È questo l’elemento principale che tanto ha entusiasmato Wall Street alla vittoria di Trump. Per quanto riguarda i dazi, in realtà sono la continuazione della politica commerciale avviata già dopo il 2016, durante il primo suo mandato e che non è stata modificata nemmeno durante l’amministrazione Biden.
In questi ultimi quattro anni probabilmente l’approccio del presidente democratico è stato meno sguaiato e più selettivo in materia di dazi, ma non meno fermo. Fosse stata eletta presidente Kamala Harris, la politica non sarebbe cambiata, se non per dettagli più di forma che di sostanza. Basta vedere la vertenza dell’ultimo anno con Pechino sull’auto elettrica in cui è stata trascinata anche l’Unione europea, senza grande convinzione da parte della Germania e in particolare della sua industria automobilistica che ha nella Cina uno dei mercati principali, soprattutto per i modelli di alta gamma. A ogni azione, corrisponde una reazione. Ai dazi europei, sono arrivate le contromisure cinesi proprio sui beni di lusso europei. Oppure il famoso programma d’incentivi pubblici denominato IRA (Inflation Reduction Act) da oltre 370 miliardi di dollari, proprio calibrato per stimolare gli investimenti nelle tecnologie green, compresa l’auto elettrica, e attirarne di nuovi dall’estero.
Il piano economico di Trump è in realtà un mix di vecchia Reaganomics (tagli fiscali in deficit) che ha sempre degli estimatori inconsapevoli nel ceto medio a tutte le latitudini, non solo negli Stati Uniti e politiche protezioniste che sono la risposta tardiva ai timori di chi – come l’operaio della Rust Belt - nei decenni scorsi ha visto sparire milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera a favore di delocalizzazioni in paesi a basso costo e che ora si vogliono riportare a casa.