L'esempio di Rushdie e la potenza del romanzo
Oggi nessuno avrebbe le palle di scrivere un romanzo come I versi satanici, figuriamoci di pubblicarlo». Le sconfortanti parole pronunciate dal drammaturgo Hanif Kureishi una decina di anni fa risuonano gelide nel primo anniversario del brutale attentato che nell’agosto 2022 ha quasi portato a compimento l’assurda fatwa di morte scagliata nel lontano 1989 contro Salman Rushdie. Certo, pur riportando ferite molto serie e gravi danni permanenti, anche stavolta lo scrittore anglo-indiano non ha dato piena soddisfazione al desiderio di vendetta del fu ayatollah Khomeini. Un anno dopo l’agguato Rushdie è vivo, il suo romanzo continua ad essere pubblicato, venduto e letto ovunque (almeno nel mondo libero) e lui stesso rimane, malgrado tutto, un simbolo contemporaneo della libertà di espressione. Eppure la triste sensazione che quella fanatica e sanguinaria invocazione alla supposta volontà divina abbia lasciato tracce fin troppo consistenti nella cattiva coscienza occidentale rimane, anche perché negli ultimi vent’anni (da Charlie Hebdo al Bataclan, da Theo Van Gogh alle altre mille stragi di innocenti perpetrate dagli islamisti) tutti abbiamo dolorosamente capito che con il fanatismo religioso antioccidentale non è il caso di scherzare. Con buona pace dell’ironia british di Sir Salman infatti, quella condanna mostruosa e senza fine sembra purtroppo essersi sedimentata nel nostro modo di pensare, pavido e insicuro tanto che per non correre il rischio di offendere nessuno, e meno che mai l’Islam, l’Occidente anche in campo culturale preferisce ormai autocensurarsi, dimenticando troppo spesso che dalle nostre parti la libertà di dire ciò che si vuole, entro i limiti della legge, è la libertà da cui dipendono o dovrebbero dipendere tutte le altre libertà.
Un lento suicidio, stracolmo di sensi di colpa, che si rinnova ogni volta che si confondono, mescolandoli strumentalmente, torti e ragioni, civiltà e barbarie, colpevoli e vittime, e che si finge, vigliaccamente, di dimenticare quanto di buono e di oggettivamente positivo per il progresso di tutta l’umanità l’Occidente sia stato capace, di proclamare, di realizzare e di stabilire una volta per sempre. Ma oggi parlare di democrazia, Stato di diritto, libertà fondamentali individuali e collettive, diritti umani e civili, laicità, rispetto, tolleranza, e di tanti altri trascurabili dettagli, faticosamente conquistati in secoli di lacrime, sembra quasi dare a fastidio a noi satolli di libertà di cui non sappiamo più nemmeno cogliere il valore, la storia e il fondamento. E guai anche solo a sussurrare che forse questi «lussi» occidentali sono migliori di tutte le alternative sperimentate finora dalle altre civiltà terrestri.
Perché, come spiegava bene lo stesso Rushdie in un’intervista precedente all’ultimo tentativo di metterlo a tacere per sempre, «in questo momento l’idea che esista una verità universale è sotto assedio. È interessante notare che, storicamente, i suoi principali oppositori erano di destra. Despoti che trovavano un vantaggio nel relativismo culturale. Puoi pensarla così lì da te, ma qui da noi la vediamo diversamente. (...) Ora trovo preoccupante il fatto che questa opinione sia condivisa tanto a destra quanto a sinistra. L’idea che non può esserci una verità universale. Ma se questa non c’è, tutti i sistemi etici vanno immediatamente in frantumi. È un aspetto del problema che coinvolge tutti noi».
E non è davvero un caso che tutta la surreale e tragica vicenda di Salman Rushdie sia nata a causa di un romanzo, la più peculiarmente europea delle espressioni culturali, quella che più ci ha insegnato la libertà di espressione, di critica e di dubbio, quella che ci ha dimostrato le infinite contraddizioni, sfumature, sfaccettature e incoerenze della sorprendente natura umana.
Salman Rushdie sconta il suo ergastolo di morte non semplicemente per aver scritto un libro che dissacra l’islam e la figura di Maometto. Di saggi, pamphlet, manifesti, articoli, e saggi vari contro l’islam, anche molto più blasfemi, irriverenti e sprezzanti dei suoi Versi satanici, ce ne sono stati a centinaia. La sua colpa è stata piuttosto quella di aver scritto un «romanzo» in tal senso. Uno spazio dove, guarda un po’, vige la libertà del creare e regna l’arte estrema della rappresentazione e che proprio per questo spaventa i teocrati di ogni risma. Ecco perché il caso Rushdie è un infinito affronto perpetrato contro la libertà di parola e il potere della cultura. Fossimo un po’meno inebetiti ogni tanto dovremmo ricordarcene.