L’Europa è in crisi d’identità politica ed economica
Che l’Europa, intesa come Unione europea, stia arrancando da tempo in termini di crescita economica e di produzione industriale è davanti agli occhi di tutti. Se il confronto viene fatto con gli Stati Uniti, l’esito è ancora più impietoso. È inutile girarci intorno, negli ultimi due anni il PIL europeo è rimasto praticamente fermo al palo. Si è marciato sul posto. E anche se non si indietreggia, se gli altri concorrenti – per continuare la metafora podistica - camminano appena un po’ veloce la distanza diventa abissale e difficilmente colmabile.
Alcuni dati. La stessa Commissione europea ha certificato per il 2023 una crescita di appena lo 0,5% del PIL che nasconde – come tutte le medie aritmetiche - enormi differenze tra le performance più o meno positive delle singole economie continentali. La Germania, prima potenza industriale europea, per esempio, ha registrato un calo del PIL dello 0,3% lo scorso anno e un altro, molto probabile, secondo l’ultima stima dello stesso governo tedesco, dello 0,2% quest’anno. Sono numeri che non dicono tutto della situazione dell’economia tedesca che è in sofferenza dal 2022, dall’invasione dell’Ucraina che le ha chiuso il rubinetto del gas russo a buon mercato. La perdita di quote del mercato cinese, inoltre, ha indebolito il suo apparato produttivo fortemente orientato all’export. Infine, la crisi strutturale in cui versa il suo settore automobilistico, con riverberi che vanno ben oltre i confini nazionali, non fa pensare a una svolta positiva nel breve periodo per l’economia tedesca. Se a questo si aggiunge anche la crisi politica apertasi nelle scorse settimane e che dovrebbe risolversi – si spera - con le elezioni anticipate e la formazione – spinte populiste permettendo - di un governo più coeso il prossimo febbraio, non è da folli immaginare ancora lungo periodo di stagnazione per l’Europa. Per il 2024 le stime di crescita per l’Eurozona vedono ancora un ottimistico, ancorché modesto, +0,8% del PIL, sempre medio. Stessa performance auspicata un mese fa dalla Commissione europea per l’anno prossimo. Gli Stati Uniti, d’altro canto, stanno mantenendo una velocità di crociera ben maggiore per quanto riguarda il PIL (+2,8% quest’anno). Le proposte economiche del rieletto Donald Trump - tutte dazi, sgravi fiscali e investimenti pubblici – rischiano di far ripartire la fiammata inflazionistica interna e nello stesso tempo potrebbero mettere in difficoltà chi esporta negli USA. Su questi ultimi eserciteranno un effetto deflazionistico perché costretti a recuperare il vantaggio competitivo perduto con un aumento della produttività o la svalutazione monetaria.
Nel frattempo, un altro big del club europeo, la Francia, rischia di attorcigliarsi attorno a una crisi politica e istituzionale interna sì, ma che ha riflessi anche sulla costruzione europea e soprattutto sulle scelte strategiche per il prossimo futuro. Potrà piacere o no, ma senza la guida e l’intesa franco-tedesca qualsiasi proposta di riforma in seno all’Unione europea è lettera morta. Per intenderci, il famoso “Piano Draghi”, una sorta di roadmap per affrontare le sfide economiche e geopolitiche che minacciano la competitività e la stabilità dell’UE, rischia di essere solo un elenco di desideri. Altro che aumento degli investimenti al 5% del PIL (800 miliardi di euro) per sostenere innovazione, transizione energetica e sviluppo tecnologico. Questo investimento è necessario per cercare di recuperare il ritardo rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. In particolare, servirebbero risorse - magari da raccogliere grazie a un mercato dei capitali di taglia continentale - da indirizzare verso settori ad alta intensità tecnologica, come i semiconduttori e l’intelligenza artificiale. Ambiti in cui l’Europa sembra aver abdicato da tempo. Il piano, ambizioso, rappresenta una chiamata all’azione per superare la stagnazione economica e posizionare l’Europa come leader nelle sfide del XXI secolo. Difficile però da implementare senza governi forti e un minimo lungimiranti a Parigi e Berlino.
I mercati finanziari, spesso specchio distorto della realtà, in questo periodo sembrano non essersi accorti di quanto successo in Francia. Non troppo, per lo meno. Ieri il tasso di cambio tra euro e dollaro per esempio è rimasto stabile. Anche i rendimenti dei titoli pubblici francesi sono rimasti più o meno allo stesso livello di una settimana fa come pure il differenziale (leggermente in diminuzione) tra le valutazioni dei titoli decennali tedeschi (i Bund) e gli omologhi francesi (OAT). Non vuol dire che va tutto bene. Dopo le guerre, le crisi di governo più o meno profonde, i tentativi di colpo di Stato e il ritorno di ex presidenti i mercati hanno digerito anche questo evento e guardano oltre.